I Pooh, quattro "amici per sempre"
di Claudio Frascella
I Pooh e il concetto di poche righe mal si coniugano. Anche volendo scrivere l’essenziale sul “gruppo italiano per antonomasia”. Quando una formazione nasce nel ’66 e da allora fino ai giorni nostri, realizza con una precisione certosina un album di inediti e, solo negli ultimi anni, in alternativa, una raccolta di successi, va da sé che l’operazione si fa complicata. E, allora, volendo essere il meno possibile formali, ricordare date, circostanze e titoli, consultabili sul sito www.pooh.it, proviamo a scrivere qualcosa che altri non hanno scritto. O meglio: proviamo a scrivere cose meno spremute in tutti questi anni. Comunque tante. [NdR: la persone al centro della foto non è il 5° Pooh, ma l'articolista Claudio Fascella]

Partiamo dalla prima formazione. Al momento di scrivere il sito dei Pooh riporta una prima formazione ufficiale con sette elementi. In realtà la prima cartolina ufficiale, un rigoroso bianco nero su cartoncino, presenta cinque elementi. Non c’è ancora, pensate, Roby Facchinetti, bergamasco. Entrerà a farne parte quasi subito, ma comunque tre mesi dopo la fondazione della band: sostituirà un tastierista inglese, tale Bob Gillot. Sarebbe bello intervistarlo oggi Bob, sapere che fine abbia fatto. Se si starà mordendo ancora le mani per l’occasione mancata; se é tornato a casa, in patria, o magari, dei Pooh se ne infischia. O se è in giro per il mondo a tenere conferenze stampa come “il quinto Pooh”. Proprio sulla falsariga del connazionale Pete Best, “il quinto Beatles”. Paragone improprio, per carità, ma si fa per scherzare. Ecco, una cosa che non manca ai Pooh è proprio il senso dell’ironia. Anni fa, per esempio, per il mensile Max, per scherzo si truccarono da ottantenni: pose plastiche, classiche “da Pooh”. Capelli brizzolati qualcuno, calvo o con qualche dentino in meno qualche altro. L’idea sarà stata forse di Stefano D’Orazio. Il batterista non lo ammetterà mai, perché i Pooh hanno un senso innato di democrazia, quanto cioé li porta ad usare il plurale majestatis. E non solo da Pooh, ma anche quando si dichiarano a una donna. Pronunciano frasi del tipo “vorremmo andare a cena con te”, “vorremmo fare l’amore con te” (a tutto c’è un limite…). Dichiarazione seria: “perché non uniamo le nostre denunce dei redditi?”. A proposito di quinto Pooh, l’appendice al quartetto esiste davvero. Si chiama Valerio Negrini, batterista, bolognese come Dodi Battaglia. Potete ammirarlo in tutta la sua generosità fisica, barba e taglio di capelli non proprio in sintonia con quello dei compagni, sulle copertine di “Tanta voglia di lei”, e all’interno di “Opera prima”. Lo sostiuirà ufficialmente dal ‘72 D’Orazio, romano, bacchette e phon per stirare i capelli (i primi anni, poi basta!). L’immagine ha il suo peso: niente capelli ricci, ma lunghi e lisci. Negrini, però, continuerà a scrivere i testi.

Forse proprio in questo dividersi i compiti e sommare i meriti, risiedono successo e longevità. Chiariamo: non che nel corso degli anni non ci sia stato qualche attrito, ma diciamo che anche quelli sono serviti. Accade nei matrimoni, e parliamo di rapporti a due, figuriamoci fra quattro caratteri forti. Ognuno dà il suo contributo alla causa. Talvolta rinunciando a qualcosa, perché la “macchina della musica” non andasse a finire nei box. Tagliando più, tagliando meno, é andata bene, proseguirà per la sua strada per tanto ancora. Da più di quarant’anni non perde giri: in salita, capita, che qualcuno spinga di più; in discesa, più comodi, tutti a bordo. Maniche rimboccate e spintoni alla “macchina” quando la discografia era in salute, così quando la stessa industria si è attaccata alla canna del gas. Insomma, nella buona come nella cattiva sorte.

Lo stesso per i concerti. Mai avuto problemi. Flessioni fisiologiche in fatto di numeri, quelle sì: avrebbero consigliato di rivedere i costi, riconsiderare se fosse ancora il caso di mettere in campo l’artiglieria pesante, uno spiegamento di forze mai visto fra strumentazione, tir, cucine da campo, un centinaio di collaboratori, fra autisti, tecnici e resto dello staff (road, addetto stampa, segretario, ecc.). A qualcuno avrebbero tremato le gambe, non ai Pooh, che hanno la testa a prova di spigolo e quel pizzico di sana incoscienza.

Nell’81 dopo un articolo sui Pooh, un impresario scrisse una lettera al giornale nel quale lavoravo, il Corriere del Giorno. “I Pooh sono finiti, una volta era sufficiente un manifesto nel centro della piazza centrale della città, oggi (’81!, n.d.r.) non se li fila più nessuno: datemi retta”. Due anni fa ho rivisto quel manager: mi ha chiesto se avessi potuto fargli da mediatore nel rinsaldare il rapporto con i Pooh, almeno dal punto di vista commerciale. Una rivincita virtuale per i Pooh, considerando che della lettera sulla “fine” dei Pooh e sulla richiesta di tregua, i diretti interessati non hanno mai saputo niente. Lo apprenderanno adesso, mentre leggono. In questo ambiente, come in altri, la cosa più saggia è farsi gli affari propri, continuare a fare il proprio mestiere. Si campa di più e meglio.
I Pooh li ho visti in concerto decine di volte, un po’ per lavoro, un po’ perché li ammiro professionalmente. In quanto alla loro musica, anche quella l’ho sempre ascoltata volentieri. Ve lo dice uno che nei primi ’70 comprava e imparava a memoria testi e accordi di De Gregori e De André, Premiata e Banco. Ma anche Battisti. Bigiavo scuola raccontando una bugia. Insieme con un amico andavo ad ascoltare i Pooh nei locali della mia città o nella stessa provincia. Erano ancora serate, i concerti sarebbero arrivati uno, due anni dopo.

I Pooh diventano Pooh, non tanto con “Piccola Katy” e “Goodbye Madama Butterfly”, quanto con “Tanta voglia di lei” e “Pensiero”. All’epoca li produce Giancarlo Lucariello, regista discografico dell’allora CBS (più avanti Cgd, gruppo Warner). Lucariello si sente un po’ Brian Epstein, il quinto Beatles; Roby, Stefano, Dodi e Red, però non si sentono i “fab four”. Breve inciso: dal ’72, subito dopo “Alessandra”, Riccardo Fogli, toscano di Pontedera, sei anni da Pooh, lascerà. La formazione non cambierà più, nemmeno di una virgola. Curiosità, minima: Dodi in quel periodo cambierà temporaneamente la finale con una “y” che fa tanto internazionale. Via Lucariello, via la “y” e spazio a una più italiana “i”. A proposito dei nomi: Roby è Camillo Roberto, Dodi è Donato, Red è Bruno, Stefano è Stefano. Stefy poteva essere un’idea, ma a D’Orazio la bocciò subito: gli scappò da ridere al solo pensiero.

Torniamo a Lucariello. Secondo il produttore devono passare concetto di musicalità e idee. Ai cursori il “regista” copre, quasi, le voci; i tappeti orchestrali annientano i testi: i ragazzi che comprano i dischi fanno fatica a trascriversi le parole. Rimedieranno già con i 33 giri “Alessandra” e “Parsifal”: testi sulla busta e all’interno della copertina. Resiste l’idea di schiacciare voci e testi con musica e grandi orchestrazioni. La produzione esterna finisce con “Ninna nanna” e “Forse ancora poesia”, l’album meno amato dai Pooh, tanto che “cara bellissima”, quasi a sfottò i quattro la ribattezzano “Caramellissima”. Non è male, però, Un po’ del nostro tempo migliore). A quei tempi “andava” De Gregori, ma si acchiappava con “Infiniti noi”. Per fare un esempio, un’amica, ottimista e di sinistra, sottobraccio una copia di “Rimmel”, mi sussurrava: “com’è che fa quella canzone, “odiami se sei messa da parte”? Bella”. Era lei, “Infiniti noi”.

Alessandra e Parsifal vanno in tour, insieme. Quattro monitor, quattro gigantografie con le facce dei quattro alle spalle e i brani dai due 33 a tutto andare: Quando una lei va via, Io in una storia, Cosa si può dire di te, Nascerò con te. Naturalmente ci sono anche “Tanta voglia di lei” e “Pensiero”. Fogli saluta Roby, Stefano e Dodi. Il cantante toscano pensa a una comoda carriera solistica, ma i primi tempi va male: la Cbs non gli sottopone il contratto da solista. Riccardo prova, allora, con la Rca, canta “Amico sei un gigante” e “Guardami”. Non va bene. Corsi e ricorsi storici, tre anni dopo incontrerà un altro ex, il Lucariello anzidetto. Con lui ritroverà spazio con “Mondo” e “Stella”.

Passetto indietro, ancora a quel ’72, ’73. Col sedere per terra, perché, lo si voglia o no, Fogli rapiva un certo pubblico femminile, faceva notizia, era “il bello”, le ragazze gli urlavano come fosse un Take That. Per la mente ai Pooh passò anche l’ipotesi-scioglimento. Ma, ecco il carattere: i tre orfanelli, superato il primo scoramento sottopongono un certo numero di bassisti a una lunga serie di provini. Licenziano i candidati col classico “grazie, le faremo sapere”. Caratteristiche essenziali: il bassista deve essere bello e bravo. Canzian, bello è bello, ma suona la chitarra. E’ il leader dei Capsicum Red, praticamente il gruppo di se stesso. Per non farsi sfuggire l’occasione il chitarrista trevigiano dice che può imparare a suonare il basso (lo ha visto fare a un amico…). I tre più Mr. Capsicum s’imbarcano per l’estero: fanno concerti lontani da casa e occhi indiscreti, per vedere se il giovanotto "funziona". Dicono che i matrimoni all’estero non abbiano valore, ma al ritorno i Pooh e Canzian hanno la fede al dito.

Una considerazione dalla quale non mi sposterò di un millimetro. Se sul finire del ’72 non si fossero ritrovati insieme – in ordine d’ingresso nella premiata ditta - Roby Facchinetti, Dodi Battaglia, Stefano D’Orazio e Red Canzian, oggi non staremmo a parlare o scrivere dei Pooh come il gruppo più longevo della storia della musica leggera italiana. Quattro anime diverse, quattro modi di vedere le cose. Non si offendano i gruppi che si sentono chiamati in causa, ma i Pooh sono anche quattro persone intelligenti. E il successo, insegnano, lo fa una programmazione seria. Sapersi amministrare è importante, perché da quando i Pooh nel ’76 realizzano “Poohlover”, primo album autoprodotto (“Linda” e “Pierre”, fra le canzoni) giocano sulla propria pelle. E’ il concetto di squadra che deve avere la meglio: nelle scelte professionali, come nei borderò della Siae, tutto deve essere scientificamente diviso. Qualche incidente di percorso ci sta. Come in ogni compagine che si rispetti: che sia una squadra o una famiglia. E’ il concetto di “Amici per sempre”, “sarà il branco che viene a salvarti, se ti perdi”. A turno i Pooh sono martello e incudine: le danno e le prendono fra loro, senza colpo ferire. La prudenza invita a chiarimenti a freddo. Sbollire, prima regola, evitare scontri frontali. Spintoni e strette di mano, è così che va.

Roby è il maestro, l’autore delle musiche, la voce di successi senza tempo: “Cosa si può dire di te”, “Pierre”, “Dammi solo un minuto”, “Chi fermerà la musica”, “Ci penserò domani”, “L’altra parte del cielo”, “Uomini soli”, “La donna del mio amico”, “Mi manchi”. Dodi è il virtuosismo, la tecnica, l’arrangiatore, la voce morbida di “hit” come “Tanta voglia di lei”, “Alessandra” e “Noi due nel mondo e nell’anima” (ai tempi di Fogli é già Battaglia a mollare il colpo…), “Infiniti noi”, “In diretta nel vento”, “Incredibilmente giù”, “Che vuoi che sia”, “L’altra donna”. Red debutta nel ’73 (“Parsifal”), canta “Come si fa” (nel ‘live’, il suo falsetto di “Nascerò con te” è un classico), attacca nella suggestiva “L’anno, il posto, l’ora”, più avanti interpreterà singoli di successo come “Maria marea”, “Cercando di te” e “Stare senza di te”. Stefano ci prova. In “Poohlover”, canta “Fare sfare dire indovinare”. A metà canzone il batterista si fa da parte, dà spazio a Facchinetti. Il batterista si rifà più avanti con risultati eccellenti. I primi tempi quelle che non vanno bene agli altri, le canta lui. Sarebbe una seconda scelta, ma basta “La ragazza dagli occhi di sole”, a oggi la sua più bella, a metterlo in ‘pole’ insieme con gli altri. Poi, fra le altre, “Se c’è un posto nel tuo cuore”, “Dimmi di sì” e, altra piccola perla con dedica a papà e mamma, “50 primavere”.

Dalla fine del ’72, i Pooh sono e resteranno loro quattro. Fra alti, bassi e raccolte, i quattro musicisti continuano a divertirsi. Dovrebbero smettere col venticinquennale, invece arriva il trentennale e il quarantennale. E non finisce qui. Si divertono al punto tale che si tolgono lo sfizio di lavorare con Teddy Randazzo, l’arrangiatore di Frank Sinatra. Anche quando sbagliano, i Pooh lo fanno in grande. Cercano di far passare “Hurricane” per un album realizzato per il mercato estero. In realtà vende solo in Italia, lo collezionano i giapponesi. Non convince il pubblico italiano, ma i fans che comprano (e importano) tutto a scatola chiusa imbarcano anche l’album con Dodi e Roby che ricantano (come il Lucio Battisti di “Images”) in inglese “Rotolando respirando”, “In diretta nel vento” e “Dammi solo un minuto”. In corso d’opera spiegano inutilmente a Randazzo il pubblico italiano, i loro fans. Il maestro ridponde “what?” e tira dritto per la sua strada. I Pooh si guardano in faccia, si interrogano cosa stiano facendo lì e cosa c’entrino con quel signore seduto al pianoforte che rivolta come un guanto “Pierre” e “In diretta nel vento”. Vorrebbero scappare, ma tutto si compie.

Arriva il primo ‘live’, “Palasport”, uno dei più bei dischi prodotti in Italia nel genere “dal vivo”. Vendono, dunque possono permetterselo. Spendono: studio mobile, missaggi e stampa. Investono anche per il trittico “Tropico del Nord”, “Aloha” e “Asia non Asia”. Volano ai Caraibi e poi alle Hawai. Scoprono, però, che gli studi italiani non hanno nulla da invidiare a quelli che ospitano Sting e George Benson. Per il terzo dei tre capitoli, vanno in Giappone per il servizio fotografico. Negli ‘scatti’ sono compresi bandana e indigeno in posa. Quelle pose vanno a far compagnia alle foto con belle hawaiane e copricapo a piume indiano. Nell’album di famiglia altre immagini nei Paesi dell’Est con pelliccia (prima della conversione al Wwf).

Arrivano album belli come “Giorni infiniti” e “Il colore dei pensieri”. Bei suoni, ma non spicca il brano di punta. Torna appena più avanti in “Oasi” (Che vuoi che sia), “Uomini soli” (l’omonima vincitrice del Festival di Sanremo nel ‘90, poi L’altra donna), “Il cielo è blu sopra le nuvole” (title-track e Stare senza di te). Prima di “Amici per sempre”, uno dei loro album più belli, altri due ‘live’: Goodbye e Buonanotte ai suonatori (dal tour acustico). In “Amici per sempre”, oltre alla canzone che dà il titolo all’album c’è “La donna del mio amico” (talmente popolare da diventare negli anni fra le più cantate al karaoke) e “Cercando di te”. E’ il ’96, l’azienda Pooh fa lavori di ammodernamento e pubblica “Un posto felice” (Se balla da sola, Mi manchi, Dimmi di sì) e “Cento di queste vite” (Non dimenticarti di me, Stai con me). Ancora un “best”, poi altro fiore all’occhiello: Pinocchio. Album e musical, scommessa stravinta. Progetto suggerito da Saverio Marconi con un superlativo Manuel Frattini registra “tutto esaurito” e centinaia di repliche. Pubblicano “Ascolta”, cui seguono un altro ‘live’ e una raccolta. Nel 2006 portano bene alla Nazionale italiana di calcio che vince i Moniali: scrivono e cantano “Cuore azzurro”. Ancora un ‘live’ e all’inizio del 2008 disco di canzoni anni ’60 che riarrangiano, anzi rigenerano. Tanto che l’album si intitola “Beat ReGeneration”. Facchinetti e band ripropongono canzoni di successo di quegli anni in versione Pooh. Dunque la voce spiegata di Facchinetti; le chitarre e la voce di Battaglia, le interpretazioni di Canzian e D’Orazio. E’ un altro successo, come il tour invernale. Scompongono la stoffa e si ricuciono addosso La casa del sole (Bisonti), E’ la pioggia che va (Rokes), Un ragazzo di strada (Corvi), Nel cuore e nell’anima (Equipe 84). Indossano le canzoni da Pooh, l’operazione è vincente. E’ a largo raggio: i ventenni si complimentano con loro per le “nuove” canzoni, che non sono vere e proprie cover; i fans più maturi gongolano. Canzoni per tutti. Il successo dei Pooh sta proprio qui: avere interpretato, talvolta anticipato, temi e amori, possibili e impossibili. Storie spesso vissute sulla loro pelle. Quattro italiani che hanno avuto la fortuna di incontrarsi, piacersi, sopportarsi e, comunque, essere un esempio di professionalità per tutti.

Claudio Frascella