1989: Ti lascerò... sovrabbondare
di Mario Bonatti


Arriva Aragozzini e c'è posto per tutti. Un'edizione (l'ultima col playback e con le schedine Totip) che per l'unica volta presenta ben tre categorie, e dà la sensazione di un vero e proprio supermercato per il quale passano tutti a fare spesa. Non mancano le belle canzoni, ma tante sono le proposte di una qualità così scadente e di dubbio gusto da domandarsi come abbiano passato la dogana. Un'edizione di passaggio, che raggiunge un'escursione termica (in fatto di generi musicali trattati) che non avrà uguali nella storia. Naturalmente è la spazzatura a emanare l'odore più sgradevole e a farsi notare. Con un po' più di attenzione però si possono notare delle proposte di alto livello. Andiamo per ordine.


CAMPIONI
Cambia il patron, ma non le schedine. I vincitori sono Fausto Leali e Anna Oxa, annunciati da almeno un paio di mesi. Un'operazione commerciale che ha del bieco, quella di promuovere due cantanti facendoli cantare insieme e poi lanciando ciascuno il suo bel disco, e che sarà tristemente ripetuta sulla scia di questa vittoria. Inoltre la canzone Ti lascerò non ha nulla per meritarsi il successo: la premiata ditta Berlincioni, Fasano e compagnia scrive una languida e piatta e triste e stanca melodia su un amore finito, blues ammuffito dove le parole cercano di farsi notare solo per la bivalenza del verbo lasciare, sia inteso come "non stiamo più insieme" sia come "ti permetterò di scegliere liberamente". Apre un Leali appena sopra il livello di decenza e poi sopraggiunge (anche sul palco) la Oxa in versione 'una gamba poi l'altra' che sbrodola la sua parte utilizzando nel peggiore dei modi le sue doti vocali. Anche durante le esecuzioni ridotte (che si sono svolte nelle serate intermedie) la canzone va quasi per intero, come per una sorta di corsia preferenziale. Del resto da una vittoria annunciata non ci si può aspettare di più.

Il cattivo gusto delle schedine, malgrado si respirasse aria nuova, persiste con la quinta medaglia d'argento del Toto nazionale: è proprio vero che sarebbe bastato mettere una sua gigantografia per fargli ottenere lo stesso numero dei voti. Sicuramente un sano silenzio avrebbe fatto meglio di questa canzone, tra le più oscene della storia festivaliera: Le mamme. Ricalcando la tematica che fu di Giorgio Consolini che vinse nel 1954 con "Tutte le mamme", Cutugno parla nel modo più sdolcinato possibile di un mondo ormai lontano, evidenziando le cose più ovvie (l'amore di una madre per un figlio e la nostalgia del bambino che fu) svuotandole di quella carica vitale e trasformando le mamme italiane in una sorta di scialle di lana piagnucolante. Tralasciando la melodia, che si ispira palesemente a un evergreen degli anni 60 ("Honey" cantato da Bobby Goldsboro e ripreso in italiano col titolo "Amore mi manchi"), Cutugno stavolta oltrepassa ogni limite volendo recuperare un genere di melodia d'antan che forse a lui non è mai appartenuto. E si difenderà dagli attacchi della critica, chiedendo ai giornalisti se anche loro (sob!) hanno avuto una mamma.

Ma non va trascurato neanche il terzo posto, con gli ineffabili Albano & Romina Power, che lanciano un appello ecologico, che alla resa dei conti si mostra molto sincero malgrado qualche caduta qua e là. Tuttavia Cara terra mia non manca di farsi notare in negativo, a causa della prosopopea del buon Albano che tiene banco mettendo all'indice non solo l'inquinamento ma anche l'incuria delle strade e il cattivo gusto musicale ("facce da p... in grande qunatità" con chiaro riferimento a uno dei successi del momento "Faccia da pirla" di Charlie). Canzoncina non del tutto impeccabile che avrà comunque il merito di provocare un vero e proprio tormentone del Festival "Come va ? Come va ? / tutto ok? Tutto ok?" si urla a più riprese nella canzone.

Già che siamo in argomento, tanto vale riassumere le altre ardite proposte che sono passate in una edizione dove anche i conduttori facevano sobbalzare dalle poltrone (quattro figli d'arte che hanno collezionato una serie interminabile di papere a dimostrazione di quanto a volte il nepotismo può far danni allo spettacolo). E scopriamo che su 24 campioni solo un terzo merita una sana bocciatura, includendo anche i primi tre già citati.

Che dire della performance di Marisa Laurito, conduttrice di Domenica In? Il babà è una cosa seria cantato da uno sconosciuto qualunque sarebbe stato fischiato anche al Festival di Napoli. La rubiconda attrice e showgirl si bea nel parlare di cose culinarie, dimenticandosi di una voce che non ha e infatti si avvicina al rap nel ritornello che decanta le lodi del dolce napoletano formato da pasta soffice imbevuta di rum mischiando saggezza popolare ad ardite fughe filosofiche (il babà come la coperta di Linus, mah!). Al suono di "l'amore viene e va ma il maccherone resta" e frasi in napoletano buttate alla rinfusa ("Co 'o babà nun se pazzea") va in scena un piccolo capolavoro di trash.

Ma fa la sua figura anche l'imitatore Gigi Sabani con un pezzo di Cutugno, dove si narra de La fine del mondo, un giudizio universale paragonato a kermesse televisiva al quale partecipa anche Celentano che vede Gesù (assurto a divo) ed esclama: "Me lo aspettavo un po più biondo". Roba da scagliare il telecomando sul televisore. Come se non bastasse la canzone di qualità mediocre, il Sabani durante la serata finale canta la facciata B, vale a dire la stessa canzone con una serie di imitazioni, trasformando Sanremo in un qualunque varietà del sabato sera.

Apparizione infelice anche per il grande Renato Carosone che riceve la visita di Claudio Mattone che bussa alla sua porta e con la scusa di raccogliere firme per la terza età lo ipnotizza e lo costringe a cantare 'Na canzuncella doce doce, pezzo assolutamente indegno della sua cifra artistica, e lo fa sfigurare nella solita oleografia 'pizza e mandolino' che infiniti lutti addusse alla tradizione napoletana. Un votaccio dunque da assegnare all'autore più che all'interprete che fa comunque la sua figura (e ce ne voleva) interpretando con una voce ancora in grande spolvero.

Altre nefandezze firmate Ricchi e Poveri, che si danno un contegno cantando un pezzo firmato dalla scuderia di Ramazzotti: probabilmente Chi voglio sei tu, deve essere stato scartato dallo stesso Eros, i tre ex-vocalist (adesso si limitano a sguaiare) la fanno propria, esaltando ancora una volta la melassa, traducibile in arrangiamenti ridondanti e parole di una banalità sconcertante ("per darti ancora di più /perché chi voglio sei tu /sei tu / sei tu").

Recidiva anche Marina Fiordaliso, anche quest'anno assistita da Toto Cutugno; Se non avessi te è un imbarazzante sequel del pezzo dell'anno precedente: vi lascio immaginare le proposizione principali che seguono l'ipotesi del titolo (una per tutte "ti inventerei"). In più fa la sua apparizione, come lo scorso anno, un vocalist che canta due o tre versi, tale Claudio Cabrini, ridicolo clone di un Fausto Leali col mal di gola, che Cutugno bontà sua aveva conosciuto in un locale. Della serie: vieni alla festa e porta un amico.

Concludono la serie delle insufficenze due illustri nomi della nostra tradizione che toppano clamorosamente la scelta della canzone: a cominciare da Fred Bongusto con una Scusa che più che rivolta a una donna per averla troppo trascurata, potrebbe essere dedicata al suo pubblico che certo non meritava questa languida canzone che vuole essere d'atmosfera ma è in grado di provocare una narcolessi fulminante.

E poi Gigliola Cinquetti la vediamo vestirsi con una minigonna di jeans e sciorinare un samba senza capo né coda il cui testo è di una vacuità sconcertante, non solo: disserta sulla relatività delle parole, e non a caso su Sorrisi & Canzoni il testo pubblicato è completamente differente! Cosa volevano ottenere con questo coup de thèatre? Ciao: mai titolo fu più indicato per una signora della canzone che esce così dalle ribalte (pur continuando a incidere). Ma c'è modo e modo per uscire di scena, e qui entriamo tra le proposte degne di nota.

La signora Dori Ghezzi coniugata De André infatti annuncia di non fare più la cantante, la sentiremo soltanto nel coro finale di "Khorakahné", canzone struggente dell'ultimo album di suo marito del 1998, al quale decide di stare vicino a discapito della sua professione. Il cuore delle donne è un delicato commiato, in punta di tromba, intonato con una sincera sobrietà e la scelta appropriata di metafore che descrivono gli stati d'animo di tante donne e ragazze che si innamorano, forse anche la sua Luvi.

Altre signore della canzone onorano il Festival della loro presenza: tra queste Ornella Vanoni che torna dopo diciannove anni e interpreta da par suo un pezzo di Paoli (sulla cui presenza parleremo in seguito): Io come farò è un accorato appello a una persona che non è più nel proprio cuore ma soprattutto non è più presente fisicamente: un delicato jazz che spicca il volo nel refrain verso una melodia ariosa e incondizionata esprimendo nel migliore dei modi la fisicità delle canzoni di Paoli, unite alla possente voce della Ornella nazionale.

Restando in tema di signore, torna Rossana Casale con un efferverscente jazz firmato dalla poliedrica coppia Morra-Fabrizio, che tratta un tema mica leggero come l'esistenza di Dio, esprimendo con positiva leggerezza l'esigenza di una propria individualità: A che servono gli dei, è un pezzo che la Rossana canta divertendosi e si fa apprezzare per la sua immediatezza.

Ma sopra a tutte ecco la performance di Mia Martini che mette davvero tutti d'accordo con Almeno tu nell'universo, forse il suo pezzo bello, una canzone d'amore di una intensità senza uguali, scritta per lei da Bruno Lauzi almeno quindici anni prima, depositata in SIAE nel 1979 e tenuta nascosta nell'attesa che poi fosse lei e soltanto lei a cantarla; e valeva davvero la pena aspettare tanto tempo. Mai tanti voli pindarici, che il titolo stesso suggerisce (uno come l'eccezione di un mondo privo di amore autentico) si sono calate con tanta visceralità nella quotidianità di una comune storia d'amore. Il risultato è un capolavoro senza precedenti, sul quale varrebbe la pena di analizzare il testo parola per parola.

E passiamo alla categoria maschile: in tono minore Tullio De Piscopo che pur proponendo una sana dose di ritmo con E allora e allora, fa un passo indietro rispetto a "Andamento lento".

Fa invece la sua bella figura Riccardo Fogli che si avvia verso una rilettura intelligente della melodia nostrana che parte da questa Non finisce così e infatti continuerà nelle successive partecipazioni.

Ritorna Eduardo De Crescenzo che si affida alla penna di Mariella Nava: Come mi vuoi è scritto a quattro mani, il testo è chiaramente della autrice pugliese, così intriso di sapide similitudini, di quell'erotismo dell'anima e affascinante nel trovare sempre soluzioni originali laddove altri annegherebbero nella banalità, la musica invece si intuisce sia equamente distribuita tra strofa (lei) e ritornello (lui), quest'ultimo più lirico, col risultato di un felice connubio tra due artisti sensibili, accomunati da un calore tipico meridionale.

Bene anche Peppino di Capri che dedica una sincera serenata allo strumento che lo ha da sempre accompagnato nel suo mestiere: Il mio pianoforte diventa così una delicata elegia alla Musa, condita da sognanti atmosfere classicheggianti.

Come dicevamo vanno in scena quest'anno tutti i registri musicali: fa la sua parte anche Sergio Caputo, così avulso dai meccanismi della gara da aggiudicarsi l'ultimo posto senza battere ciglio. Rifarsi una vita è comunque un pezzo di tutto rispetto, una sorta di country rock dal ritmo travolgente tenuto su dalle sue immancabili scelte lessicali sospese tra onirismo surreale e ironia del vivere.

Un posto di rispetto lo mertia anche Raf, il quale non solo riscatta la opaca performance dell'anno prima, ma si prende la responsabilità di firmare un pezzo sul decennio che si appresta a concludersi e che ancora doveva firmare la sua pagina più altisonante (la cadura del muro di Berlino il 9 novembre): ne esce fuori un funky di tutto rispetto Cosa resterà degli anni 80 ha il merito di fissare in poche istantanee una certa consapevolezza di un tempo che non tornerà più, nel bene e nel male e che sembra già quasi appartenere al passato, forse testimone di tempi che corrono inesorabili velocizzando la storia, la moda e i costumi. Il cantautore pugliese, ormai italianizzato, mostra così la sua vena soul e la sua voce calda.

Ma l'edizione n. 39 è contraddistinta dalla presenza dei due fenomeni discografici del momento, entrambi partoriti dalle reti Fininvest che quindi giocano quasi in trasferta. Jovanotti e Francesco Salvi oltre ad aggiudicarsi rispettivamente quinto e settimo posto, saranno in testa alle Hit Parade. Per Lorenzo Cherubini è anche la prima volta in italiano: dopo aver spopolato con un lp rap "Jovanotti for President" e aver furoreggiato tra i teenager con il suo stile sfrontato e la sua faccia di bronzo, non senza sfoggiare un abbigliamento da vero e proprio merchandising ambulante, si presenta in licenza dal Servizio Militare (come Celentano trent'anni prima, sembra davvero sulle sue orme!) con un rock di chitarre distorte, la sua voce nasale con tanto di esse sibilante e un titolo per niente casuale. Vasco è una sorta di duplice dialogo con una mamma di vedute miopi e uno della gang da cui il Jova vuole prendere le distanze per certe sue scelte discutibili che vengano velatamente accennate. La morale è che i giovani non sono così sprovveduti, al punto da saper discernere il bene dal male senza per questo rinunciare a vivere la loro età. Il tutto con un ricorso a un certo rampantismo di fondo, frasi sgrammaticate e slogan da mandare a memoria, alcuni anche discutibili. Tuttavia Jovanotti apporta una ventata di trasgressione che riesce a far storcere il naso ai benpensnti (Aragozzini compreso) e rappresenta una terapia d'urto necessaria al festival.

Altrettanto compie il comico lombardo Francesco Salvi, mattatore di una serie di show televisivi, e primo in classifica con un rap trasversale "C'è da spostare una macchina": sospeso tra demenziale e velato senso di denuncia, affila le arme dell'ironia facendola a volte sfociare nel sarcamo. Questa Esatto è un vero e proprio metaspettacolo: su una base all'ultimo grido, si inscena una "vecchia fattoria" anni 90, dove quattro animali cercano di far bella figura ma riescono a non farsi capire o a stonare: "Con tutto quello che si sente in giro, proviamo a far cantare gli animali veri". Ma a quanto pare non si nota la differenza: maiale, gallo, cavallo e cane non vanno oltre il loro monotono verso. Ci salverà il pesce, che almeno resterà muto. Tutti resteranno coinvolti dalla sfrontatezza di questo showman che tornerà altre quattro volte al Festival.

Di una ulteriore onda d'urto sarà protagonista un certo Enzo Jannacci che al suo trentesimo anno di carriera fa il suo esordio a Sanremo, con l'intento di portare qualcosa di un certo spessore, riuscendovi pienamente. Anche Se me lo dicevi prima paga dazio al recitativo (troppo facile chiamarlo solo rap): con una leggerezza degna del suo genio denuncia un mondo dove l'indifferenza regna sovrana e si somma a un senso di onnipotenza derisoria, di gente che guarda con sufficienza e bofonchia "ma se me lo dicevi prima" dando del cretino allo spossato di turno, in un mondo dove i giovani devono sottostare a regole capziose e se per caso cadono in un errore (la droga, l'errore per eccellenza) sono respinti per sempre dalla società. In questo spiraglio di strafottenza, c'è spazio per una sana utopia di speranza, quando "sarà bello quando t'innamori, quando canta Gaber, quando tace il water" (cioè finiscono le crisi e i malesseri di ogni tipo), "quando senti il sole" quando cioè potrai respirare un alito di vita nonostante tutto. Jannacci canta con estrema partecipazione, come sempre canta a soggetto modificando il testo ma spesso arricchendolo con altre frasi al vetriolo, fino alla serata finale quando dopo alcuni versi si slaccia la cravatta con rabbia come per urlare meglio la propria rabbia. Un vero professionista e artista che dire sensibile è dir poco.

Alla fine il bilancio dei Campioni risulta decisamente lusinghiero: come se non bastasse giunge l'adesione all'ultimora di Gino Paoli, assente dagli anni '60, che dopo avere sparlato del Festival fino a qualche settimana prima, accetta con pirandelliano senso di contraddizione l'invito di Aragozzini. Decide di incidere un pezzo che aveva già dato alla Vanoni per il suo nuovo album, scritto insieme alla compagna Paola Penzo, una struggente serenata su un amore da dosare attimo per attimo senza farsi prendere dalle passioni più effimere ma vivendolo quotidianamente: arrangiamento acustico con venature jazz, testo di una bellezza straordinaria, che ognuno può calzare facendolo proprio (il verso "so' tenere per me / la fragilità di (quattro lettere) / con cui mi chiamano" può infatti essere modificato a seconda del nome di chi canta), ma non è tutto. Nella serata conclusiva, Paoli esibendosi per ultimo, la canterà interamente dal vivo (basterà un pianoforte, una chitarra e un sassofono), rilanciando così l'esecuzione con l'orchestra che dall'anno seguente tornerà al Festival e segnando il passaggio a una rinascita del Festival. La sua presenza sarà dunque del tutto promozionale; anzi di questa canzone non farà nessun 45 giri, la inciderà soltanto in un disco dal vivo: la versione studio sarà inclusa nella compilation ma sarà orrendamente tagliata, e quindi reperibile integralmente solo nella versione juke-box. Per la cronaca, Paoli finirà al tredicesimo posto, una posizione sotto Marisa Laurito. Ah, le schedine, addio pure a loro e senza rimpianto.


NUOVE PROPOSTE
Categoria ribattezzata semplicemente "Nuovi" per fargli fare pendant con gli "Emergenti", conferma le formula della doppia scrematura, e conferma la miopia delle giurie, in grado di bocciare diverse proposte gradevoli se non addirittura di ottima fattura. Andiamo quindi in ordine di eliminazione: tra le prime otto ad andare a casa segnaliamo almeno tre eliminazioni immeritate.

Nessun rimpianto per Valentini (riesumato da Sanremo 1985) con una insipida e melensa Bocca di fragola, la velleitaria Meccano con Le ragazze come me e le ridicole lolite Benedicta e Brigitta Boccoli, sorelle lanciate da Boncompagni attraverso i suoi programmi per adolescenti, che cantano un pezzo più che scadente di Jovanotti Stella, dall'elevato tasso calorico.

Pazienza per gli Sharks, gruppo spalla di Vasco Rossi, troppo giovanilistici con questa rockeggiante Tentazioni, certo meglio di tanto zucchero filato. Peccato anche per Antonio Murro, che ha il pregio e il difetto di cantare in dialetto napoletano un pezzo ben fatto con echi melodrammatici 'A paura, forse difficile per le giurie nazionali.

Ma lo scandalo vero e proprio lo subiscono i Ladri di Biciclette: otto musicisti emiliani di Carpi riescono a risuscitare il fascino e l'eleganza della band r&b, aggiungendovi una ventata di autoironia e sano divertimento, a partire dallo stesso titolo del pezzo che riprende il nome della band, fino alla vena istrionica e demenziale del leader Paolo Belli. Il nome stesso, ispirandosi al capolavoro neorealista di Vittorio De Sica del primo dopoguerra, rimanda con la mente a quando spopolavano queste musiche sincopate dal largo respiro orchestrale. Un progetto che durerà lo spazio di due album, avendo anche un discreto successo commerciale, ma per le giurie sanremesi non ci sarà nulla da fare. E così i Ladri vengono fatalmente derubati.

Fuori senza meritarlo va anche Stefania La Fauci, l'anno prima tra le prime otto, stavolta presente con una canzone d'amore atipica scritta da lei stessa che riesce a ribaltare le stesse regole della forma canzone restando comunque di forte impatto emotivo, rielaborando con eleganza gli stilemi degli anni '70 e '80 in una soluzione originale e mai più tentata: evidentemente tra Tutti i cuori sensibili non c'erano quelli dei giurati, in più l'aver cantato subito dopo l'uragano Jovanotti può non averla favorita più di tanto.

Altra eliminazione doc è di una brava rocker toscana di nome Gloria Nuti che si fa notare per la sua spregiudicatezza, la sua voce rochita, un sassofono a tutto andare e un pezzo che denota una certa grinta e personalità senza per questo scimmiottare il modello per eccellenza, la Nannini. Bastardo è il seduttore di turno che prima mette paura alla malcapitata di turno, che prima rifiuta ma poi si ricorda di non essere una verginella qualunque e anzi invita il bruto a tornare sui suoi passi fino a offrirsi lei stessa passando da "almeno non farmi male" a "almeno fammi provare". Ironia a suon di rock e un finale strumentale da brividi. Le giurie puritane dicono: no grazie.

E siamo in semifinale. Rimpianto a metà per la bella voce di Stefano Ruffini, che fa un piccolo passo indietro rispetto all'anno scorso ma comunque riesce a proporre una garbata canzone acustica dedicata a una ex intitolata Si chiama Hélène, con pennellate naif messe qua e là.

Troppa grazia per una band né carne né pesce chiamata inopinatamente Élite con una Se che non sa proprio di nulla. Sfortunata Aida Satta Flores, presente nel 1986, che non riesce ancora a farsi notare malgrado una delicata nenia in stile barocco con gradevoli volute jazz intitolata Certi uomini, dal testo molto raffinato e innovativo.

Altra proposta scadente viene invece da Gianluca Guidi, figlio di Johnny Dorelli, con uno swing vecchio di trent'anni sulla migliore amica che diventa amante. Amore è ha anche una interpretazione tronfia che neanche suo padre nel 58 proponeva (vi raccomando il climax: "che fesso fesso fesso a non accorgermiiii / che fin dal primo giorno amore è"). Di Capri, uno che se ne intende, resterà scandalizzato dalle giurie che hanno preferito lui ai Ladri Di Biciclette: come dargli torto?

E si arriva così in finale: tra i quattro fortunati fa ribrezzo la presenza di tale Gitano con Pelle di luna, stucchevole elegia alla way of life degli zingari, ai quali va tutto il rispetto e forse anche le scuse di essere stati rappresentati con questa brutta canzone e questo ridicolo personaggio. "Gitana balla balla ancora / sotto questo cielo stacci un'ora". Passi che la sua carovana abbia toccato le spiagge di Sanremo, ma addirittura tra i primi quattro! Almeno finirà quarto.

Al terzo posto Franco Fasano, (tra gli autori della canzone vincitrice) che torna come interprete e segnerà un breve periodo di qualche anno di felice ispirazione poetica a partire da questa imponente proposta pregna di lirismo e con un arrangiamento funzionale alla sua bella voce che certo non era riuscita a farsi notare otto anni prima. E quel giorno non mi perderai più avrebbe meritato anche un voce alla Leali, ma Fasano fa la sua figura.

Secondo posto per un'altra reduce da Sanremo 1981: Jo Chiarello non è più la sfrontata pulzella ex di Califano, ma un dolce visino che intona un pezzo non disprezzabile ma deboluccio. Io e il cielo presenta dunque ombre e luci, discreto dispiego melodico ma parole un tantino obsolete, orecchiabilità ma qualche intuizione non felicissima.

Almeno il primo posto stavolta ci sta tutto: largo dunque a Daniela Miglietta da Taranto, in arte Mietta che cancella l'eliminazione dell'anno prima e vince con un bellissimo pezzo firmato dal suo vero padrino artistico Amedeo Minghi. Canzoni parte dal punto di vista di un artista che canta di amori fittizi e si interroga sul proprio, confrontando la credibilità dei due. Da una parte le canzoni che per quanto belle sono sempre irreali e si riducono a un "tara ta ta ta ta" (favolosa scelta poetica in chiave minimalista) dall'altra una storia con due protagonisti in carne e ossa ("Qui si tratta di noi"): ma in fondo anche questa decantata storia vera è dentro la canzone, e allora il gioco di specchi resta così irrisolto nel suo alone illusorio, nella magia di una melodia, in un testo fuori dagli schemi, che è tra i più belli dell'autore romano. "Quello che sta succedendo sarà forse sì musicale.." queste ultime tre parole faranno da titolo allo spettacolo che Minghi porterà con successo nei teatri, nobilitando maggiormente la vittoria di questo astro nascente.


EMERGENTI
Pensare male è peccato ma si può indovinare. Questa categoria, istituita solo per questa edizione, sembra essere stata messa a bella posta non solo per riesumare cadaveri della sottoproduzione musicale, ma anche per dare una comoda vittoria a Paola Turci, che nelle precedenti tre edizioni aveva raccolto solo eliminazioni e premi della critica. Infatti non bisognerà fare un grosso sforzo per decretare la sua canzone come migliore tra le otto. Bambini brilla comunque di luce propria, Turci sposta il suo raggio d'azione dalle atmosfere rarefatte a un sano country alla West Coast, aggiungendovi anche un testo impegnato che parla di infanzia bruciata fornendo un quadro forse pessimista ma aderenta alle realtà di molte megalopoli dove la delinquenza minorile dilaga. La cantautrice romana raccoglie comunque quanto finora seminato e si avvia a una saltuaria partecipazione tra i Big.

Il resto degli Emergenti erano invece da tempo affossati, ma Aragozzini ha dato loro la chance di rimettersi in mostra. Si salvano solo Aleandro Baldi (con un bellissimo blues confidenziale che incide anche Raf E sia così arriva terzo) e Aida Cooper, di fatto la migliore backvocal italiana, che in questi anni ha provato l'ebbrezza di cantare in proprio. La canzone Questa pappa, divertito mélange esotico con tanto di sezione fiati parla dei malcostumi nostrani, e fa da postilla a un bell'album pubblicato due anni fa dal titolo "Vincitori e vinti".

Il resto è davvero un pianto: a partire dal secondo classificato Stefano Borgia che sconfessa il suo look di cantautore di nuova generazione presentato nel 1985 e canta un pezzo di Cutugno, un'altra delle sue ruffianate, Sei tu. Imbarazzante il ritorno sulle scene di Gepy & Gepy (Per lei), camaleontico personaggio mai assurto a vette di un certo livello se non come autore, e dei Santarosa che trovarono una sola volta nel 1978 la via della classifica con "Souvenir" e che si espongono a certo ludibrio con una canzone anche questa nostalgica Gli anni migliori. Male anche la Steve Rogers Band, la band ufficiale di Vasco Rossi, che trova in Uno di noi un pezzo decisamente sbagliato, e fuori tempo la presenza di Marina Arcangeli, ex Schola Cantorum, troppo arcaica con la sua cerebrale Il poeta.

C'è qualcuno invece che è riuscito a farsi notare anche senza cantare: si tratta dei Future, uno dei pochi casi in cui i vincitori delle Nuove Proposte dell'anno prima non sono stati ammessi né tra i Big né altrove, mostrando il proprio disappunto al patron Aragozzini il quale ha fatto orecchie da mercanti, salvo poi riparare l'anno dopo. Ma in fondo non è stato un così grosso errore, anche se in questo bazar poteva esserci posto anche per loro. Non a caso il più grande scalpore lo suscitò Beppe Grillo con un monologo entrato di diritto nella storia della televisione.


GRADUATORIA PERSONALE:
1) Questa volta no
2) Se me lo dicevi prima
3) Almeno tu nell'universo
Nuove Proposte ed Emergenti
1) Tutti i cuori sensibili
2) Canzoni
3) Bambini

SHIT SANREMO:
1) Le mamme
2) Il babà è una cosa seria
3) Se non avessi te

Nuove Proposte ed Emergenti
1) Gli anni migliori
2) Pelle di luna
3) Amore è

FRASE DELL'ANNO:
"Se me lo dicevi prima ti dicevo che noi abbiam bisogno della gente giusta tra l'1 e 60, l'1 e 60... tra l'1 e 60! Capito? Sì ho capito che quando uno sta male deve arrangiarsi da solo" (da "Se me lo dicevi prima", Enzo Jannacci)

PERLE DI SAGGEZZA:
"Vai così che è una figata / perché una storia così non c'è mai stata / che c'ammazziamo / ci divertiamo / facciamo i scemi / e qualche volta pensiamo" (da "Vasco", Jovanotti)

MARIO BONATTI

Continua...