1992: Portami a rischiare
di Mario Bonatti


Dato il benservito ai ridondanti ospiti stranieri, il Festival si ritrova con un'orchestrata sempre meglio attrezzata e tante idee nuove da sciorinare negli anni a seguire. Intanto ritorna il Pippo nazionale e subito si respira un'aura di ufficialità degna di un Blatter della Fifa (facendo i dovuti paragoni a favore del nostro). Ci vogliono sempre delle novità per rendere il Festival sempre nuovo e degno di essere seguito e anche criticato. Ed ecco il classico uovo di Colombo: ma cosa sono questi campioni che hanno già la finale assicurata? Mettiamoli in gara pure loro. Cotto e mangiato. Ventiquattro Big di cui soltanto quindici in finale.

Apriti cielo! Una rivoluzione copernicana che ha come immediato rovescio della medaglia quello di proporre un discreto numero di concorrenti fatti apposta per essere sbattuti fuori dopo la prima esibizione senza che di loro si versino lacrime amare, anche se naturalmente lo spazio per qualche lamentela non mancherà, e l'anno dopo la formula darà esiti ancora più clamorosi. Ma intanto questa scrematura avrà come conseguenza la sfilata di alcuni zombie del panorama e del sottobosco musicale nostrano. Dal canto suo, le Nuove Proposte, vistesi in un certo senso equiparate in dignità ai colleghi col pedigree, si tirano a lucido e, quasi a sorpresa, aumentano sensibilmente il livello complessivo della loro musica e del loro background col quale presentano il proprio pezzo, con alcuni esempi di rara bellezza e innovazione. Un'edizione spartiacque, insieme alla successiva. Un Sanremo in forma smagliante: una vera Taglia 42.

Sanremo di quest'anno inoltre presenta un'inatteso retroscena, per la gioia della stampa specializzata. Una delle canzoni in gara incappa nell'esecrabile errore di vedere eseguita suo malgrado e pubblicamente la sua canzone prima delle serate in terra di Liguria (probabilmente da una discoteca): leggenda metropolitana dice che altri pezzi sarebbero venuti alla luce prima del tempo dalla stessa incauta fonte, ma alla fine paga solo la povera Jo Squillo che trangugia amaro e se ne va. La sua canzone Me gusta el movimento era di una bruttezza sesquipedale, quindi non è certo una gran perdita, a parte la messa in evidenza di quanto sia facile fare le scarpe a chiunque, fatta salva la regola sacrosanta che vuole i pezzi del tutto inediti. Prende il posto nientemeno che il redivivo Pupo, che si fa chiamare col suo vero nome di Enzo Ghinazzi (l'hanno chiamato così com'era, non ha fatto in tempo a mettersi il vestitino da... pupo) che proverà invano a recapitare un fascio di rose rivierasche alla estromessa Jo, che con altrettanta eleganza rifiuterà.


CAMPIONI
La mamma è sempre la mamma: una sorta di corsia preferenziale aiuta le canzoni che trattano smaccatamente l'argomento genitoriale. Barbarossa in questo ha un asso vincente, fino a sovvertire i pronostici che davano già vincente Mia Martini: l'opinionista semiserio Gianni Ippoliti, forte di previsioni azzeccate negli anni passati (quando aveva indovinato le… sorprendenti vittorie targate Pooh e Cocciante) annuncia con largo anticipo la vittoria di Mimì, e anche solo considerando la componente superstiziosa, gufa spaventosamente. La bella voce di Bagnara Calabra deve accontentarsi del secondo posto.

Portami a ballare è già un titolo abbastanza obsoleto: non manca di stile il buon Luca nel disegnare con tratti genuini e tinte vivaci il quadro di una madre ancora piacente ed emancipata alla quale voler dedicare una insolita serata mondana, traducibile in un po' di attenzione da rivolgerle nel mezzo di una vita densa di impegni e forse anche di altre donne. Ma a parte gli involontari e inevitabili ricorsi al complesso di Edipo, traspare una certa ruffianeria di fondo e un retrogusto caramellato, non ultimo la trovata di pronunciare la parola mamma solo dopo i primi versi come per uno scontatissimo colpo di scena. Insomma, si sente il cantautore ma si vedono anche le sue strizzatine d'occhio.

Quanto a Mimì, benché il suo talento sia indiscutibile e il suo carisma riconosciuto, stavolta propone un pezzo si presenta al di sotto degli abituali standard (basti pensare alle due canzoni targate 1989 e 1990. Gli uomini non cambiano è stata da lei scelta in quanto tratta un rapporto conflittuale col padre, ma presa da sé è una canzone in perfetto stile Bigazzi/Masini, che il fiorentino non può cantare per questioni naturali, e che elenca senza alcun freno tutti i luoghi comuni sull'uomo cattivo che tratta le donne come oggetti del loro piacere, ma…oh sorpresa, "tu che sei il mio uomo tu sì che sei un uomo vero, innamorato davvero!" (Bruno Lauzi aveva espresso medesimi concetti in "Almeno tu nell'universo" ma in ben altra maniera!). Il confronto è soprattutto azzardato con altri quadri di vita sentimentale che Mimì aveva via via disegnato nel corso degli anni (da "Minuetto" a "Donna sola" a "Io donna io persona" fino a "Donna" di Gragnaniello), che per fortuna hanno retto l'urto.

Podio non irresistibile, al contrario delle successive posizioni che almeno offriranno un'accettabile gamma cromatica. Si ripete la storia della Nuova Proposta che arriva tra i Big e le stendono anche i tappeti. Paolo Vallesi è terzo con La forza della vita, e segue in parte la parabola del collega Masini, convincente all'esordio, furbo nella conferma. Questa canzone che esalta la voglia di stare al mondo è fatalmente zuccherosa sia nelle trame musicali, sia nell'interpretazione da piano bar, sia nelle tematiche scelte a livello esemplificativo per dire che in fondo volere è potere anche quando stai in braghe di tela. La citazione dell'AIDS indicata come "nuova malattia" (neanche fosse l'ultima collezione di Versace) sa di vero e proprio sciacallaggio letterario. Ma come si dice largo ai giovani specie se dalla faccia pulita.

Viene riproposta la graduatoria completa dei finalisti: ma mai come adesso bisogna partire dagli esclusi, tre per serata e magari confrontarli con le altre canzoni rivali. Nella serata del mercoledì, il buon Pupo tappa il buco di Jo Squillo, ringrazia e se ne va: La mia preghiera non è neanche una proposta così malevola, ritmata e del tutto estranea al repertorio più famoso del fiorentino, ma in fondo è giusto così.

Se ne va anche la Formula Tre, parente povera della band che fu, che non è certo da sottovalutare con questa Un frammento rosa, ben cantata dalla voce di Tony Cicco, ma è un po' pretenziosa nel voler resuscitare un rock di cui si sono perse le tracce a livello generazionale e dunque risulta anacronistico all'udito dell'ascoltatore medio.

Più sorprendente l'uscita di Scialpi: l'ex angelo dannato del rock postatomico, che si faceva sdrucire i jeans dalla mamma, torna con una ballad da lui scritta, molto partecipata intitolata È una nanna, poesia lirica allo stato brado senza ulteriori messaggi se non quello di una pace interiore e una ricerca metafisica, pezzo anche questo non disprezzabile che le giurie avranno trovato troppo carico di sentimentalismo.

E se gli altri partecipanti alla stessa serata avevano le spalle troppo forti per non uscire di scena, l'unica proposta a guadagnarsi il passaggio col sudore della fronte è quella della coppia formata Franco Fasano e la rediviva Flavia Fortunato. Il prolifico autore milanese non si discosta dal suo stile tipo blues gonfiato e pecca di scarsa originalità, per nulla supportata dalla voce della Flavia (magnetica come una gomma da cancellare) che colleziona così la sua sesta presenza sanremese con questa Per niente al mondo, scialba canzone d'amore infarcita di similitudini e iperboli di cui non si sentiva la mancanza.

Vanno avanti poi i due cantanti che si piazzeranno nelle onorevolissime quarte e quinte posizioni finali: Pierangelo Bertoli e Massimo Ranieri. Per la voce napoletana sarà una dignitosa rentrée con un pezzo elegante e sobrio meno imponente di "Perdere l"amore" ma non per questo meno fascinoso, anzi sotto certi aspetti le parole di Ti penso scorrono con maggiore disinvoltura e minori platealismi. Bertoli invece, alla sua seconda presenza di fila, fa centro con una puntualissima reprimenda sui malcostumi italiani. Appena scoppiata l'epopea di Mani Pulite, questa Italia d'oro è una denuncia tutt'altro che demagogica, piuttosto amara e condita da un risentito sarcasmo sul marcio che ripopola le stanze degli uomini che decidono sul destino del nostro Bel Paese. Apologo degno di un moderno Tiresia su quanto sarebbe accaduto nei mesi e negli anni seguenti, è anche una canzone densa di quel lirismo che richiama l'amore per una perduta patria, che si chiude con le parole dell'inno di Mameli sul tema principale. Piazzamento più che meritato.

Altri finalisti i nuovi Matia Bazar che tornano senza la Ruggiero, rimpiazzata da Laura Valente, futura moglie di Pino Mango: la loro Piccoli giganti (riflessione neutra sulla presunta maturità di un uomo adulto in materia di sentimenti) segna un episodio pop che guarda sempre all'estero ma riguarda a sonorità più immediate e attuali rispetto ai capitoli trasversali e sperimentali del passato. Quindi, anche senza tenersi sulla scia di "Vacanze romane" il gruppo sembra tenere testa alle mode, almeno per quest'anno.

In finale anche Riccardo Fogli, con un blues sofisticato e autoriflessivo della collaudata coppia Morra-Fabrizio intitolato In una notte così comunque sempre in sintonia con la sua cifra artistica.

E in seconda serata le esclusioni appaiono quanto più preventivate. Alle giurie non pare vero di estromettere i Ricchi e Poveri con una canzone scritta da Toto Cutugno, di mediocre fattura: Così lontani ripropone i fantasmi degli anni '80 sia dell'uno sia degli altri, tuttavia la brunetta ci resterà malissimo, accettando di malagrazia lo scorrere del tempo e delle mode (non si vedranno più i tre al Festival).

Altra esclusione scontata è di Mino Reitano, che si sforza di proporre un pezzo dignitoso con questa Ma ti sei chiesto mai, condita da atmosfere da night ma troppo somigliante al suo stile ormai desueto.

Torna a casa anche il folk della Nuova Compagnia di Canto Popolare, probabilmente per questioni di comprensibilità da parte dell'intera popolazione giurata: la loro ballata mediterranea Pe' dispietto è una piccola gemma incastonata da echi arabi ed esotici che mette all'indice i primi rigurgiti di sciovinismo leghisti che si stavano diffondendo nel nostro paese davanti ai quali cantare come resistenza passiva e non violenta.

Oltre a Mia Martini, conquista la finale Fausto Leali con un pezzo di Aleandro Baldi: a tratti ermetico a tratti eccessivamente filosofico: Perché si avvale della voce importante del bresciano che l'ha voluta fermamente proporre e riesce a caricarla della giusta dose di pathos, anche se le tematiche legate agli uomini che perdono il lume del bene seguendo una condotta di vita dissoluta e volta al male, non è stata del tutto recepita dall'ascoltatore medio.

In finale anche Drupi con un blues senza capo né coda Un uomo in più, insieme a un redidivo Peppino Di Capri che si accompagna con la bella voce roca di Pietra Montecorvino con una effervescente Favola blues che fotografa i paesaggi più incontaminati delle costiere partenopee, canzone che nella serata iniziale (si seppe dopo) raccoglie addirittura il primo posto provvisorio, salvo crollare nella finale fino al penultimo posto.

Passa anche Mariella Nava, che premia il coraggio di un pezzo come sempre di non facile presa: Mendicante è anch'esso nel segno dei tempi, si rivolge alla classe dirigente dipingendola con un tratto fortemente decadente che ricalca la morale de "Il re è nudo", paragonandola al mendicante, in quanto, come spiega la stessa Mariella, "il mendicante chiede senza dare nulla in cambio" e i politici (raffigurati da Forattini nella copertina del disco) sanno solo chiedere sacrifici alla gente comune. Mariella la canterà due volte, e per lei sarà una piccola vittoria.

Quanto alla terza serata, anch'essa ha già pronti tre esclusioni ad hoc; a cominciare da Paolo Mengoli, zombie reduce dai primi anni '70 con un pezzo Io ti darò che scivola nell'indifferenza più assoluta benché legittima.

Fuori anche l'attrice Lisa Sastri con un altro pezzo napoletano: Femmene 'e mare di impronta fortemente lirica, fascinoso, sognante, molto bene eseguito, ma forse fuori posto per una manifestazione come questa.

E il comico Giorgio Faletti commette l'errore di abbinarsi a un'altra esponente della musica di ieri, la Orietta Berti che comunque riesce a non prendersi sul serio con questa Rumba di tango scritta proprio da Faletti con una melodia vagamente parodistica e un testo semiserio che fa il verso alle languide proposte dei decenni passati, tutto sommato un'operazione gradevole e originale, ma purtroppo per la Orietta nazionale Big Ben aveva già da tempo detto stop.

Insieme a Barbarossa e Vallesi, approdano in finale: Michele Zarrillo, sponsorizzato da Venditti in Strade di Roma, canzone confidenziale di buon impianto pop anche troppo somigliante al nuovo corso ammiccante del romano Antonello.

I New Trolls, alle prese con una cura Gerovital che producono una patetica rievocazione (anche in chiave di registro musicale) di ciò che erano e che non sono più attraverso Quelli come noi che trasuda nostalgia con delle debolissime operazioni di fittizio ringiovanimento ("quelli come noi / che hanno visto i muri crollare" dimenticando che un muro è appena crollato e l'hanno visto tutti e che loro semmai l'avevano visto ergersi).

E infine i sardi Tazenda, l'anno scorso spalle di Bertoli, che si presentano da soli con una struggente e ispirata serenata ai "Bambini nella guerra", che in logudorese recita Pitzinnos in sa gherra, canzone che guarda con partecipata poesia e un lucido senso di denuncia alle conseguenze nefaste dei più assurdi conflitti (nello specifico quello vicino in ex-Yugoslavia), sulle popolazioni più inermi: "loro chiedono solo una terra" che non sembra a loro appannaggio. Canzone in dialetto che chiosa con alcuni versi in lingua, scritti da un certo Fabrizio De André che accosta le parole del girotondo "tutti seduti giù per terra" con tristi presagi di morte per una generazione a cui è negata, se non la vita, almeno l'infanzia, con conseguenze pressoché uguali a prescindere dalla loro sopravvivenza. A differenza dei pezzi in napoletano, il sardo ottiene i favori del pubblico (e un ottavo posto finale) a riprova dell'espressione rock di dimensione nazionale promossa dal terzetto.


NUOVE PROPOSTE
Sanremo, si sa, sfoggia canzoni come bottiglie di vino, e ogni annata fa storia a sé. Positivo nel complesso, forse per una casualità più che per una scelta oculata, il livello delle sedici canzoni in gara, a parte le solite scelte discutibili delle giurie, che tuttavia restano coerenti nella loro prevalente incompetenza artistica.

La vittoria sorride a un artista che ben si è comportato nelle passate edizioni, raccogliendo solo briciole. Accanto al chiantigiano Aleandro Baldi si affianca una voce emergente (rimasta tale) di bella presenza e dalle gradevoli ugole, la siciliana Francesca Alotta: il risulato è una canzone d'amore fuori dagli schemi che solo le menti troppo schematiche possono ribattezzare come "Trottolino amoroso 2: il ritorno". Niente di tutto questo: Non amarmi ha in comune con "Vattene amore" solo la matrice del titolo all'apparenza negativa che poi trova modo di risolversi nell'appagamento più pieno dei sentimenti. Ed è una canzone del tutto autobiografica, poiché è rivolta proprio da un alter ago di Aleandro, non vedente: come se una persona affetta da un qualche handicap, di per sé introversa, possa avere una comprensibile paura di sentirsi amato soprattutto per compassione: "Non amarmi per il gusto di qualcosa di diverso", passando per una geniale simulazione di errore "non lasciarmi / ho sbagliato voglio dire non amarmi" fino a un amore che si scopre in tutta la sua sincerità. L'abbinamento delle due voci si mostra ben riuscito, e il genio dell'ex fisioterapista toscano non ancora intaccato dalle ruffianerie di Bigazzi.

Il secondo posto è una conferma: Irene Fargo ricicla sé stessa con una nuova canzone in forma romanzata, stavolta affondando pienamente le radici nel melodramma. Dalla donna di Ibsen al sentirsi Come una Turandot dei tempi moderni il passo è breve. Non mancano le furbe citazioni dalle stesse arie pucciniane, ma in perfetto stile sanremese, e ignorando ancora quanto questa ondata di melomania abbia poi generato la fortuna di un certo Bocelli. La tradizione trionfa sempre, sia se indossi i jeans o gli abiti da sera.

Ma a farla da padrone sono anche le trovate pubblicitarie a dispetto della qualità. Al terzo posto infatti si classifica un pezzo che rappresenta la più bieca operazione commerciale perpetrata alla ribalta di Sanremo. A cinque anni dal suo esordio, e una carriera non felicissima ma intensa, si ripresenta il rocker genovese Alessandro Bono, ma lo fa accompagnandosi con un artista che certo non è una nuova proposta, il bolognese Andrea Mingardi, definito come l'unica voce blues italiana, sulla scena musica musicale da almeno tre lustri. Con l'aria di chi, uscendo di casa per andare a esibirsi, ha incontrato un amico e gli ha chiesto se gli faceva compagnia sul palco, Bono scompare letteralmente e sotto tutti gli aspetti (specie quello vocale) al cospetto di Mingardi che tiene banco e di fatto partecipa in una categoria che non gli appartiene. Come se non bastasse, il brano è una boutade del camaleontico Claudio Mattone (altro protagonista in negativo dei Festival con l'unica eccezione in "Ancora" del 1981) che scrive uno dei suoi pezzi stucchevoli e monotoni, intrisi di irritanti stereotipi, sull'amicizia virile tra due che hanno una certa differenza di età, che combinazione. Con un amico vicino, in termini di contenuto, è la variante di molte canzoni dello Zecchino d'Oro. Musicalmente è di un blues appena accennato. Ultima ciliegina sulla torta: mentre Bono non fece altro che ristampare l'album "Caccia alla volpe" con il brano nuovo, fu proprio Mingardi a pubblicare un album inedito. Che dire di più?

Il livello dei giovani è cresciuto, ma resta come sempre indietro la giuria che boccia la maggior parte dei brani di un certo livello. In finale arriva Massimo Modugno, figlio del Mimmo nazionale, con un pezzo intimista (Uomo allo specchio) che sembra rubato al padre ma che non prende il volo malgrado le buone intenzioni jazz e il testo di Migliacci, lo stesso di "Volare".

Inutile la seconda performance di Patrizia Bulgari: con Amica di scuola tenta di proporre una canzone d'autore al femminile ma si scopre priva di un qualche background, se si eccettuano alcuni echi di Lena Biolcati, che certo non è Patty Pravo.

Da cestinare il ritorno della Rita Forte con Non è colpa di nessuno (siamo sicuri?), comunque avviata al titolo di Miss Tappeto Volante che deterrà a lungo.

Sesto classificato, ecco la rivelazione dell'anno in termini di copie vendute: un faccione rubicondo di Firenze di nome Alessandro Canino, sotto l'egida di Beppe Dati (scuderia Bigazzi) si presenta in ghingheri e lancia Brutta, canzone in controtendenza che per dimostrare che la bellezza è quella interiore e che anche le bruttine possono trovare un fidanzato, costruiscono una sceneggiatura che è un capolavoro di surreale. Il povero scorfano, magra senza seno e con gli occhiali, dà la festa di compleanno, salvo poi cadere in una crisi depressiva realizzando che i suoi invitati sono composti esclusivamente da conturbanti bonazze vanagloriose e fighetti dalla battuta facile; la disperata non esce dalla stanza, piange lacrime amare, gli astanti ringraziano e se ne vanno senza degnarla di un saluto, ma lui rimane, la aspetta e le offre un consolatorio mazzo di fiori, ma non poteva darglieli prima? Melodia accattivante, ritmo esotico, citazione smargiassa da "Ti ricordo ancora" di Concato e le teenager si rispecchieranno in questo bravo ragazzo ma soprattutto in questa canzone furba e decisamente sopravvalutata.

Senza infamia e senza lode il velleitario ma sincero Lorenzo Zecchino con Che ne sai della notte, nulla più, malgrado un ennesimo ricordo alla parola mamma. La proposta più degna tra le finaliste è, guarda caso, quella che arriva ultima malgrado un titolo anche questo eccessivamente originale: Abbiamo vinto il Festival di Sanremo ripropone cliché non freschissimi ancorché verosimili sulle leggende metropolitane che dicono che si vinca se si hanno i santi in paradiso; tuttavia il merito degli Statuto (dal nome della Piazza di Torino, meeting point per antonomasia) è quello di riproporre generi dimenticati quali lo ska e il twist, e di rilanciare la figura del Mod, che fu degli anni 60, portando un po' di ritmo e di intelligenza artistica.

Tra gli esclusi ecco i pezzi più pregiati, eccezion fatta per un omonimo e evanescente Stefano Polo con Piccola Africa, comunque più proponibile di molti dei sopra citati.

Va fuori Bracco Di Graci, pupillo di Dalla, con la sua voce graffiante e Datemi per favore, interessante variante del pop di scuola bolognese.

Vanno fuori i Tomato, apprezzabile band onesta e senza eccessivi ammiccamenti ai giovani acquirenti con un pezzo solido nello spartito e nell'interpretazione intitolato Sai cosa sento per te.

Va fuori Giampaolo Bertuzzi con Un altro mondo nell'universo, blues di ampio respiro che nasconde un'identità artistica altra a quella festivaliera.

Va fuori Tosca, alias Tiziana Donati con un motivo di notevole lirismo, che racconta una storia di Resistenza legata all'occupazione degli alleati e delle numerose relazioni con le donne che aspettavano l'arrivo dei loro uomini dal fronte, e lo fa mantenendo intatto lo stato d'animo di quarant'anni prima lasciando alla musica il compito di dare colore al "bianco e nero", evidenziato dall'implorazione Cosa farà Dio di me della donna in preda a sensi di colpa, voce che avrà il suo momento di notorietà nonostante tutto.

Va fuori Andrea Monteforte con Principessa scalza, canzone scritta da Gino Paoli non immediata me che meritava per questo ben altra attenzione.

Va fuori Aida Satta Flores, che fallisce la finale per la terza volta, sempre con situazioni musicali coraggiose e accurate, una coerenza artistica nel proporsi che non ha dato i frutti sperati neanche con questa divertita Io scappo via, dal doppio registro, eseguita in punta di piedi con un felice senso di leggerezza. La giovane artista, nipote dell'attore Stefano, dichiarerà desolata di chiudere con la musica, mettendo in pratica le parole della canzone, artista da riconsiderare che forse ha avuto il suo limite proprio in un certo complesso di inferiorità rispetto alle già note istanze stilistiche del Festival.

Va fuori, scandalosamente, Gatto Panceri, chitarrista monzese di fama europea, che trova, dopo qualche esordio faticoso (Sanremo 1986), una via tutta sua di canzone d'autore, che unisce a un rock melodico con reminescenze brasiliane ad ampia scala, parole nuove, un lessico innovativo e argomenti degni di nota. L'amore va oltre parla di un ragazzo rimasto sulla sedia a rotelle che si innamora corrisposto di una studentessa di psicologia. Marino e Adele sono i nomi di due amici realmente esistenti di Panceri, che glorifica questa bellissima storia d'amore, che ha dato una lezione alle ipocrisie, ai complessi e alle fobie del mondo perbenista.

In questo parterre de roi al contrario, ecco il Premio della Critica per le Nuove Proposte: era sicuramente impensabile che potessero farsi benvolere dalle giurie, pertanto la loro esibizione è comunque da bacio accademico. Il sestetto targato Vercelli degli Aeroplanitaliani rappresenta un progetto purtroppo effimero (un solo album) che ruota intorno alle idee di Alessio Bertallot e il genio creativo di un mago della consolle quale Roberto Vernetti. Zitti zitti (il silenzio è d'oro) rema contro la civiltà del rumore, ben riassunto in chiave house nel blob televisivo e radiofonico che viene messo in scena nella prima sezione, con frasi smozzicate di telegiornali e pubblicità e riferimenti all'attualità di inizio anno, e stemperato in un bel rap funky dove si invita a una pace ironicamente nichilista con citazioni di classici, un refrain sussurato e contrappuntato di xilofoni e un finale hip hop che sentenzia "Nel silenzio finalmente sento". Ma il coup de thèatre rende il tutto ancora più sfizioso: se nell'incisione le due sezioni sono suddivise da due secondi di silenzio, al Teatro Ariston i ribaldi pensano bene di prolungare il silenzio fino a 32 minuti secondi, portandosi l'indice al naso e lasciando esterrefatta la platea, passando alla storia del Festival con la più sana delle provocazioni che neanche Celentano...


GRADUATORIA PERSONALE:
1) Pitzinnos in sa gherra
2) Italia d'oro
3) Mendicante
Nuove Proposte
1) Zitti zitti (il silenzio è d'oro)
2) L'amore va oltre
3) Non amarmi

SHIT SANREMO:
1) Quelli come noi
2) Così lontani
3) Io ti darò

FRASE DELL'ANNO:
"Mangiati quel che vuoi / fin quando lo potrai / tanto non paghi mai, ve'?"
(da "Italia d'oro", Pierangelo Bertoli)

PERLE DI SAGGEZZA:
"Che allegria di là in salotto / e nessuno si domanda dove sei /
vanno via ma io ti aspetto / con in mano questi fiori /
per poterti dire tanti auguri, brutta"
(da "Brutta", Alessandro Canino)

MARIO BONATTI

Continua...