1993: Tra mistero e... operazione voti puliti
di Mario Bonatti


L'edizione n. 43 del Festival offre numerosi spunti di interesse, a cominciare (udite udite) dall'ottimo livello delle canzoni in gara. Non solo: ma i verdetti delle giurie sovvertono buona parte dei pronostici della vigilia, e anche se non mancheranno alcune esclusioni ingiuste tra le Nuove Proposte e tra i Campioni (ancora sottoposti alla gara a eliminazione!), ciò dipenderà anche da una discreta concorrenza. Gli stessi stili musicali si presentano variegati, una gamma multicromatica che insieme a una ventata nuova nel settore organizzativo sembra fare intendere che ci si trovi a una svolta. Le edizioni successive smentiranno questa piacevole sensazione. In ogni modo, quest'anno fanno il loro ingresso le giurie disseminate nelle sede Rai che votano in tempo reale, subito dopo aver ascoltato il pezzo: diventerà una consuetudine il cartello con foto dell'artista mandato in onda a sancire la chiusura dei voti per l'esibizione appena conclusa.


CAMPIONI
Alla fine dunque vince uno dei favoriti, Enrico Ruggeri, ma lo fa con un pezzo atipico benché calzante con il DNA del perfetto vincitore. Mistero è un titolo quanto mai azzeccato per quanto le giurie decretano in questa edizione, quasi a meravigliarsi che una volta abbiano scelto in maniera abbastanza oculata. Dietro a ciascuna eliminazione dei Campioni in gara c'è qualche messaggio da interpretare. Ma il festival non ne terrà conto, e già dall'anno seguente rimetterà i Big senza rischio di esclusione, in una sorta di riparazione, quasi scusandosi. Probabili pressioni delle major discografiche.

Dunque Ruggeri, vincitore nel 1987 insieme a Morandi e Tozzi con una canzone non sua, si aggiudica la palma con un pezzo suo, supportato dalle chitarre di Luigi Schiavone. Una dissertazione su quanto sia difficile potersi dire esperto di materie amorose nonostante gli anni e le storie accumulati, giocata con spirito sdrammatizzante e senza molte pretese filosofiche, risulta alla fine una degna canzone da premiare, considerando anche l'elevato tasso musicale e la gradevole impronta rock offerti da uno dei più navigati cantautori nostrani.

In seconda posizione giunge a sorpresa lo stesso premio della critica: Cristiano De André con Dietro la porta raccoglie i frutti del suo pedigree con un pezzo intimista scritto da un giovane autore Daniele Fossati, incentrato sul tema del domani e sulla paura di affrontarlo. Interpretazione magistrale, arrangiamento sobrio in equilibrio tra atmosfere soffuse e lirismo orchestrale per un podio più che meritato, malgrado il figlio d'arte non abbia mai prodotto una discografia così facile da assimilare né sempre all'altezza del suo genitore.

Arriva a sorpresa anche il terzo posto, con un duo al femminile formato da Grazia Di Michele e Rossana Casale. Gli amori diversi è scritto da entrambe le interpreti e musicato in chiave jazz, col vantaggio di risaltare due gradevolissime voci. Il tema che non rinuncia a una certa ambiguità di fondo (diversi in che senso?), ruota anche questo intorno ai sentimenti inquadrati in un'ottica nuova e profonda, dunque un pezzo di tutto rispetto che completa un podio a sfondo cerebrale, con una canzone scelta da ciascuna delle tre serate, che andiamo a ripercorrere.

La prima serata (con Ruggeri) offre due eliminazioni abbastanza scontate e una a sorpresa. Peppino Di Capri (con La voce delle stelle), esponente della musica di ieri, viene messo alla porta, colpevole non tanto di essere Peppino Di Capri, quanto di aver scelto una languida canzone che ammicca ai miti scomparsi in tono troppo ruffiano, scegliendo proprio i più altisonanti, Elvis Presley, John Lennon, e Freddie Mercury e trasformandoli in ipotetici (molto ipotetici) angeli cantatori, scolorandoli della loro patina maledetta e trasgressiva: un pezzo infelice.

Fuori anche gli zombi della Schola Cantorum: Sulla strada del mare è un pezzo fuori tempo massimo, accentuato dal tema della nostalgia sulla spensierata gioventù. Le voci caratteristiche di Alberto Cheli e Aldo Donati possono anche dare un brivido agli ultratrentenni, ma non se ne sentiva comunque la mancanza.

L'altro eliminato è Alessandro Canino, assurto a Campione a seguito del suo exploit con Brutta. Confermati i suoi boccoli naturali, e il cliché giovanilistico allo zucchero filato, Canino forse flirta con la stessa bruttina emancipata, ma ormai non è più amore. Tu tu tu tu è una imbarazzante serenata a un telefono occupato (presente nell'accordo inziale rigororsamente in La come da cornetta!), confuso col pronome ormai non più pronunciabile perché tutto è finito anzi è un "cuore occupato", canzone caduta in precoce vecchiaia con l'avvento dei telefonini. Un rischio mal calcolato, perché anche se le giurie lo bocciano, complice anche un febbrone da cavallo che rende difficoltosa l'esibizione, sarà difficile per Canino mantenere uno zoccolo duro di ammiratori, scendendo pian piano nell'anonimato delle meteore.

Passa dunque il turno Francesca Alotta, Nuova Proposta uscente (Baldi invece non partecipa): gradevole ma non di più la sua Un anno di più, molto sanremese e intrigante nella storia al passo coi tempi di due che si incontrano dopo essersi conosciuti in compagnia coi loro rispettivi ex. La bella voce siciliana si farà da parte più per mancanza di un progetto artistico coerente ritagliato su di lei che per le sue capacità.

Avanti anche Paola Turci, ormai big affermata, con un'ottima situazione pop con echi di Dire Straits e sospiri anglosassoni. Stato di calma apparente è infatti un pezzo col fiato sospeso, che tiene sulle corde lo stato d'animo di una donna che vive ogni momento con intensità, musicalmente ancora attuale a distanza di anni.

In finale anche Tullio De Piscopo, meno folcloristico e più concreto con questa Qui gatta ci cova, in sintonia con la sua cifra artistica e la sua napoletanità, che gli permette di confermare la sua predilezione per i suoni equatoriali, con l'aggiunta di un indovinato rap.

Tra le altre finaliste l'inedito e quasi sorprendente abbinamento delle sorelle Berté: Loredana e Mimì si esibiscono per la prima volta insieme, nel Festival che il destino aveva stabilito fosse l'ultimo per Mia Martini. Canzone scritta dal fido Piccoli e dalla stessa Loredana, propone un pop innovativo, arricchito da effetti sonori all'avanguardia, che il pubblico ha capito poco, giurie comprese che la piazzarono in penultima posizione nella serata finale. Il refrain, insieme all'intero testo asciutto e senza retorica, si dispiega in un certo lirismo che riecheggia lo stile di colui che forse è l'unico referente artistico a loro comune, Ivano Fossati. Nel complesso Stiamo come stiamo è un'operazione ben riuscita. Alla luce della prematura scomparsa di Mimì, resterà il rimorso di Loredana di aver cantato, per sua ammissione, nel peggiore dei modi, trovandosi sotto stress lavorativo anche a causa della produzione del suo album, e dispiacendosi di non aver offerto la spalla necessaria a sua sorella.

Seconda serata (quella con De André): ecco la clamorosa eliminazione di Milva. Sembrava difficile che il fascino della signora della canzone si confondesse con l'etichetta da cantante datata: inoltre la pantera di Goro si presentava con un pezzo della collaudata coppia Facchinetti & Negrini, un pezzo in perfetto stile Pooh, condito da arrangiamenti latini di Fio Zanotti che ne fanno una ironica milonga dove si parla di questi Uomini addosso prigionieri della loro stessa virilità. Milva non nega un certo patema d'animo da vera professionista, e infatti dopo il verdetto si pente clamorosamente di aver fatto questa scelta audace e in un certo senso spregiudicata ("Hai le braghe che scoppiano" come frase ricorrente), operazione dignitosa che forse ha colto le giurie in contropiede. Non mancano ombre in questa canzone e nell'esibizione della stessa Milva (che sbaglia l'attacco anticipandolo di una battuta salvo riprendersi dopo la prima nota), ma forse un'eliminazione al primo turno è parsa ingenerosa.

Così come non avrebbe demeritato il sodalizio formato da Tony Esposito e dai Ladri di Biciclette orfani di Paolo Belli. Probabilmente il blasone dei cantanti qualificati ha avuto la meglio (Milva a parte!): ma non era male davvero questo effervescente r&b da sempre bene accetto in un platea dove prevale la melodia. Cambiamo musica rimane dunque un appello inascoltato: Esposito sparerà a zero sulla regia televisiva, incapace di dare il giusto risalto al mélange di strumenti (ovviamente più importanti del testo) prodotti dalla numerosa band e dalle innovative percussioni del napoletano.

Nulla da eccepire invece sull'esclusione di Jo Squillo, esclusa in extremis nel 1992 e ammessa in via riparatrice con questa Balla italiano che riprende il discorso (per modo di dire) dell'anno passato, risultando una corriva e insipida dance né demenziale né ironica, che si ritorce su sé stessa risultando anche piuttosto ridicola, avendo come unico presupposto un farneticante invito al patriottismo come antidoto alla Lega Nord di Bossi! Ballare italiano proponendo dei ritmi di derivazione anglosassone: mica male…

Per fortuna che passa il turno Roberto Murolo: i giornalisti avrebbero parlato altrimenti di lesa maestà. In effetti la presenza del menestrello napoletano è di tutto rispetto: L'Italia è bbella ricorda alla lontana la tradizione multietnica della tradizione partenopea: scritta da un giovane autore, affronta con delicatezza il tema scottante degli extracomunitari che arrivano nel nostro paese (ricorrono anche echi di suoni maghrebini): Murolo la fa sua e la interpreta saporitamente.

Altro exploit targato Napoli lo compie Nino Buonocore, ma con qualche riserva: non si discute il fascino di questa sua canzone, Una canzone d'amore per nulla banale, che sposa al meglio jazz blues e melodia. Il problema è che il bravo artista durante la settimana sanremese è vittima di una terribile laringite che lo fa clamorosamente stonare. Buonocore non arriva alle note più alte del refrain: ma la giuria ritiene che l'esibizione sia un optional e lo perdona (tanto valeva andare in playback): nella serata finale, sarà necessario fare abbassare di mezzo tono l'arrangiamento, che sarà ridotto al solo pianoforte per l'impossibilità di adattare l'intera orchestra. Questo unplugged forzato gli costerà l'ultimo posto, e chissà se questo non sarà dipeso solo dalle giurie, (in fondo non era sgradevole questa nuova versione) o se piuttosto richiesto come contropartita per un'eccezione che forse non era prevista dal regolamento. Sarebbe stata necessaria un'operazione Gole Pulite (in piena epopea di Tangentopoli!) che riguarderà altri partecipanti, oltre a Buonocore e Canino e con esiti differenti.

In finale approdano come da copione due mostri sacri, tra cui il favoritissimo Amedeo Minghi. La sua Notte bella magnifica pur rintanata nel suo stile zuccheroso e romanticheggiante, non è così malevola, una volta accettato il corso proustiano del cantautore romano, al punto che si resterà sopresi nel trovare l'autore di "trottolino amoroso" relegato al nono posto, laddove avrebbe dovuto come minimo piazzarsi in zona medaglia.

Andrà invece meglio ai Matia Bazar, che finiranno quarti posti con un pezzo decisamente incosistente: Dedicato a te è fin troppo velleitario e già sentito, pensato per soddisfare i palati meno esigenti, sfrutta nel peggiore dei modi sia l'orchestra sia i più scontati dei riff pop, una sorta di ruffianata calcolata che avrà come esito nefasto quello di scavalcare di una posizione Renato Zero, che ci porta ad affrontare la terza serata.

Felice l'intuizione di Roberto D'Agostino che definirà Peppino Gagliardi un cantante cuscinetto: "si sapeva da due mesi che sarebbe stato eliminato". In effetti la canzone di un altro dei tanti napoletani presenti è godibile, ariosa, e dolcemente malinconica, di pari livello dei suoi successi più famosi, l'interpretazione viscerale da consumato entertainer, ma fatalmente datata: L'alba diventa così il tramonto definitivo di un artista che ha comunque dato il suo degno contributo alla causa musicale italiana.

Fa invece scalpore (e le vendite lo confermeranno) la messa al bando del trio nostalgia formato dai Camaleonti, i Dik Dik e Maurizio Vandelli, ex leader dell'Equipe 84. Dopo la stagione delle "rotonde sul mare" di Red Ronnie e numerosi show (e dischi) revival con successi inopinatamente restylizzati a dispetto dei suoni puri di una volta, ecco un pezzo che i nostalgici appunto ameranno, ma che resterà a ben vedere una eliminazione niente affatto sbagliata. Il pezzo (inedito di una raccolta di successi reincisi, guarda caso!) è scritto dagli ineffabili Dati e Bigazzi, con l'aiuto di Riccardo Del Turco, e mostra il suo patetico ricorso all'età dell'oro del beat italiano con le voci dei brizzolati paladini degli anni '60 che si piangono addosso, in una sorta di incontinenza psicologica, nel guardare la carta d'identità e come se non bastasse ecco gli echi di un organo Hammond che se potesse (cioè se il copyright non glielo impedisse) risuonorebbe tout court il tema di "A whiter shade of pale" (la "Senza luce" dei Dik Dik). Vandelli, il meno nostalgico della cricca e con lo sguardo rivolto sempre avanti, non nasconderà di sentirsi poco partecipe nei confronti di questa canzone, diciamolo di questa nuova "Bigazzata", inconfondibile al pari di certe "Mattonate". Le giurie vogliono comunicare, attraverso questi cadaveri eccellenti, come potrebbe essere cambiato il gusto del pubblico medio, e forse con i campioni ci riescono anche (miracolo!).

Con questi presupposti se ne torna a casa anche Francesco Salvi, molto bene accolto nelle edizioni passate. Un madison accelerato con tinte blues e ritmo sincopato è in fondo il suo marchio di fabbrica prediletto. Dammi 1 bacio fa il verso alle canzoni d'amore, o forse no, forse ci crede davvero, al punto da peccare di verbosa filosofia al di fuori del simpatico e scioglilinguesco ritornello. Comunque sempre una performance divertente, che coinvolge anche Baudo che saltella con Salvi, ma non può concedere il bis. Anche lo spiritoso Salvi mastica amaro al Dopofestival!

Insieme alla coppia Di Michele & Casale, il passaggio più sofferto è quello di Andrea Mingardi che convince con un pezzo confidenziale e carico di intrigante atmosfera: Sogno lo restituisce al suo amatissimo blues dopo le nefandezze commerciali dell'anno passato.

Passa anche Mietta con un pezzo meno forte dei precedenti, dalla melodia leggermente stantia e i contenuti troppo indulgenti verso il linguaggio dei teenager: non a caso si parla proprio di questa fascia d'età in questa pretenziosa Figli di chi (una sorta di "Terra promessa" dieci anni dopo), canzone chiave di un progetto denonimato "I ragazzi di Via Meda" (dalla sede di Milano della Fonit Cetra): infatti il gruppo di giovani voci cantano insieme e al cospetto della "chioccia" Mietta, forse non ancora del tutto matura per fare da madrina. Un gruppetto di volti sconosciuti, tra cui spicca il solo Danilo Amerio (che parteciperà negli anni seguenti) e, relativamente all'album-progetto, un certo Filippo Neviani che troviamo già tra le Nuove Proposte a camminare con le proprie gambe e… il nick di Nek.

Tra i vincitori morali ecco invece Biagio Antonacci, passato inosservato cinque anni prima, e ora in grado di spiccare il volo con questa struggente Non so più a chi credere, una ballad suonata in punta di chitarra, che tratta con eleganza e un certo senso della poesia, la sfiducia verso le cattiverie del mondo e le ipocrisie della nostra società, canzone che mostra una sincerità di fondo e invita a riscoprire una certa innocenza in un periodo di forte sfiducia verso le istituzioni "confuso e schiavo di chi non sa decidere" (Mani Pulite non manca di far sentire la sua impronta).

E per finire ecco la performance di Renato Zero: pur ottenendo l'accesso alla serata di sabato, coloro i quali avevano previsto la subitanea dipartita, si riveleranno delle impietose cassandre quando poi Renatone verrà relegato in una quinta posizione che saprà di bocciatura e desterà scandalo e fischi da parte del pubblico dell'Ariston. Del resto Renato o si odia o si ama: facile dunque che abbia trovato una forchetta molto ampia di voti. Di sicuro, in un Festival solitamente avaro di situazioni di rilievo, è cosa buona e giusta farsi coinvolgere dal maestoso dispiego orchestrale del maestro Renato Serio e da questa preghiera di speranza che Zero rivolge alla madre celeste, riuscendo a evitare qualsiasi qualunquismo e demagogia, anzi mettendosi dalla parte dell'uomo comune che sulle prime è sconvolto dalle brutture del mondo, ma a fatica trova il mistico conforto nella figura cristiana della Madonna. Renato interpreta da par suo, con le sue solite abilità istrioniche, facendosi accompagnare da un coro polifonico a cui lascia la scena nel finale su un superlativo tappeto d'archi dopo aver implorato accoratamente "Un abbraccio ancora / tu puoi farlo / ancora una volta Maria". Ma non ne farà un dramma, almeno all'apparenza, votato com'è a promuovere il progetto Fonopoli.

Va quindi in archivio un'edizione spartiacque a cui farà seguito una serie di edizioni mediocri e male organizzate, fino alla breve e felice epopea Fazio. Un altro fattore di transizione è rappresentato dalla morte del vinile avventuta il 31 dicembre 1992, che di fatto sta cambiando il modo di proporsi degli stessi partecipanti, non più alle prese con un singolo da lanciare ma con un prodotto più ampio, o spesso con il rilancio e la ristampa di un lavoro già pubblicato. La bontà delle future partecipazioni andrà infatti valutata in proporzione alla validità del progetto discografico a esso legato. Mentre le Nuove Proposte avranno bene o male qualche disco nuovo per… proporsi come si deve, tra i Big se ne vedranno delle belle… perché ormai Sanremo sarà Sanremo.


NUOVE PROPOSTE
Anche il carnet dei giovani è degno di nota, e le giurie sembrano accorgersene, tranne per un paio di eccezioni sia in difetto sia in eccesso. Vince Laura Pausini, sul cui spessore artistico ci sarebbe da eccepire e non poco, ma indubbiamente la sua affermazione sarà soltanto l'inizio di una sfolgorante carriera a livello mondiale, e in un certo senso il pubblico ha sempre ragione anche quando ha torto. La men che ventenne ragazza emiliana, figlia di un cantante di piano bar, si presenta con un voce ampia e importante ma presta il fianco a situazioni corrive e melense, destinandosi a un pubblico di adolescenti; ne è un esempio questo suo primo fiore, che resterà una delle canzoni più amate del Festival. La solitudine è una piagnucolosa storia da scuola dell'obbligo di due innamoratini che vedono infrangersi "la storia di noi due" perché il padre di lui, cuore di pietra, ha cambiato lavoro, e la povera verginella non può fare altro che stringere al cuore una sua fotografia "tra i compiti di inglese e matematica". Quasi un'istigazione al suicidio da far rabbrividire. La simpatica Laura seguirà il destino di chi una volta diventato famoso grazie a Sanremo, gli volterà le spalle: tuttavia il suo exploit darà il via a un'ondata di proposte su questa falsariga (più… "falsa" che "…riga") di cui dovremo dare riscontro nelle edizioni seguenti.

A far compagnia alla Pausini ecco il referente maschile Nek, che finisce terzo con una canzone sdolcinatissima forse ruffiana ma in un certo senso provocatoria, non si sa quanto sincera. Un esordio atipico rispetto alla cifra media del repertorio che verrà, intanto questa In te (il figlio che non vuoi) si meriterà la palma di canzone più chiacchierata del Dopofestival, visto il tema dell'aborto, evidenziato sia dal sottotitolo, sia dalle teneri esortazioni del papà che prova a mostrare alla riluttante madre com'è bello mettere al mondo un figlio, senza dirci come andrà a finire ma mostrandoci come potrebbe essere. Senza entrare nel merito della delicata questione, resta un tentativo coraggioso di affrontare un tema quantomeno originale. Il biondo Filippo comunque si guadagna la simpatia del giovane pubblico e avvierà la sua gloriosa carriera.

In mezzo a costoro, si situa una vera cantautrice dalle idee chiare: Gerardina Trovato da Catania, rifiutando ogni pseudonimo, si siede alla turca su un cubo e si accompagna alla chitarra in una commossa serenata alla sua città da cui si è dovuta allontanare per dare un senso alla sua vita, riflettendo sui pro e i contro dei suoi sogni, utilizzando un linguaggio a volte acerbo ma sincero fino in fondo. Con echi arabi miscelati a suoni mediterranei, un ritmo coinvolgente e una bella voce roca, Ma non ho più la mia città è un'ottima carta d'identità di una autrice che smussando gradatamente il suo stile a volte naif, troverà la propria maturità artistica, trovando uno zoccolo duro di ammiratori senza lesinare un buon pop. In questo pezzo trova posto anche una frase del magistrato Paolo Borsellino, scomparso nel luglio precedente: "Chi non ha paura di morire muore una volta sola".

Dunque un podio di Nuove Proposte da molte copie vendute: il resto è comunque degno di nota. Bracco Di Graci trova finalmente un degno risultato con un bel pezzo rock molto coinvolgente che riflette sull'annoso tema del bene o del male: Guardia o ladro è un altro retaggio della sindrome da Tangentopoli che ha colpito l'opinione pubblica.

Erminio Sinni, navigato piano man e autore, si propone con la sua voce importante in un pezzo scritto con Cocciante che stupisce per l'originalità delle parole a dispetto del facile titolo L'amore vero, canzone sui voli pindarici degli innamorati che prima descrive gli attimi più intensi dello stare insieme per poi interrogarsi sul come mai tutto sfumi in una nuvola di fumo.

Ottima figura anche da parte di Rosario Di Bella, sensibilissimo autore dotato di uno stile tutto suo e una voce particolare: Non volevo si situa in un limbo della canzone d'autore a metà strada tra ricerca espressiva e razionalizzazione delle nuove tendenze musicali.

E se le giurie delle prime serate hanno avuto la mano troppo leggera con alcune proposte un po' deboli, ecco che le giurie del sabato le mettono nelle posizioni di coda: troppo stereotipato il rock pseudomaledetto di Marco Conidi con Non è tardi che invece giunge decisamente in ritardo rispetto a come gira il mondo della canzone.

Inutile la prova dei Fandango, che avevano fatto meglio due anni prima: la voce della solista è anch'essa vittima della raucedine, ma ciò non le impedisce di passare il turno, immeritatamente in quanto Non ci prenderanno mai è un ridicolo quanto involontario remake di "Noi ragazzi di oggi" di Luis Miguel, degno di un inno da partito politico (il padre della solista lo era, che combinazione!).

Peggio anche Tony Blescia, clone di Raf che si canta addosso in questa Quello che non siamo, anche questo un titolo che si ritorce su chi lo canta, canzone di un pop di quarta mano che si distingue per una marea di zeppe testuali (tra cui spicca il "sai…").

Tre validi sostituti si sarebbero trovati, vabbe' non si può avere tutto! Comunque il premio della critica è tra le canzoni eliminate: Angela Baraldi, rocker di classe e di scuola bolognese, presenta A piedi nudi, canzone atipica che le permette di esprimere, grazie alla sua voce graffiante un senso profondo di libertà anche artistica, giocata su un accattivante riff di violino, ma per lei si chiudono le porte.

Ingeneroso anche il verdetto per Marcello Pieri, autore non irresistibile, ma in grado almeno di alzare il livello del ritmo con questo r&b intitolato Femmina che presta il fianco ad alcune felici intuizioni a sfondo erotico ma non volgare.

Va buca anche ad Antonella Bucci, pupilla di Eros Ramazzotti (cantò con lui la bellissima "Amarti è l'immenso per me" nel 1991). Dotata di una voce dalla amplissima estensione, paga fino in fondo i cali di voce e le stecche che sono finite in gloria ad altri colleghi: forse per l'emozione, forse per la difficoltà di esecuzione, forse per la complessità del pezzo di matrice jazz, certo è che Il mare delle nuvole, poesia allegorica d'amore musicata dallo stesso Eros col testo del fido Cogliati, è stata capita davvero poco. Come a volte una serata sbagliata può compromettere seriamente una carriera: con tutte le voci limpide che passeranno in rassegna negli anni successivi, in una sorta di esaltazione del bel canto, le ugole della mora Bucci davvero non ci stavano male!

Escludendo la frizzante canzone folcloristica in dialetto napoletano intitolata Femmene (= donne) e cantata dalla bella voce di Niné, emula della De Sio, il resto è trascurabile zavorra. Da una voce sguaiata Cliò non Non dire mai a una fin troppo estrosa Maria Grazia Impero che gioca a fare la bambina cattiva con una situazione banale sin dal titolo che è Tu con la mia amica e smargiasse trovate (le darà una lezione Irene Grandi!), da un Lorenzo Zecchino che ritenta la carta con Finché vivrò una canzone d'amore fatalmente troppo sanremese, a uno stucchevole e irritante Leo Leandro che scimmiotta Panella e Topo Gigio con Caramella, fino a Luca Manca che canta una canzone anche questa con un retrogusto alla Luis Miguel: Ci vuole molto coraggio è il premio a un concorso organizzato da Baudo dai microfoni di Domenica In che lo vede vincitore, salvo poi decidere, tra la commozione generale, di volersi esibire con gli altri tre finalisti (tali Falsini, Manuela, Virago) per dare anche a loro una serata di gioia per amici e parenti: una sola, perché le giurie diranno di no.


GRADUATORIA PERSONALE:
1) Non so più a chi credere
2) Ave Maria
3) Mistero
Nuove Proposte
1) A piedi nudi
2) Ma non ho più la mia città
3) L'amore vero

SHIT SANREMO:
1) Balla italiano
2) Dedicato a te
3) Io ti darò

FRASE DELL'ANNO:
"Sì siamo bugiardi e anche vili
ma non siamo stati mai così soli"
(da "Ave Maria", Renato Zero)

PERLE DI SAGGEZZA:
"Ci credevamo eterni
ci credevamo eroi
ma il tempo se ne frega e passa su di noi"
(da "Come passa il tempo", Maurizio Vandelli, Dik Dik, Camaleonti)

MARIO BONATTI

Continua...