1995: Come Baudo saprebbe amare Sanremo
di Mario Bonatti


Sempre sotto l'egida di Pippo Baudo, Sanremo tocca quota 45. La formula tende a non mutare sostanzialmente, anche se ci sarà un'innovazione così determinante da risultare decisiva per la vittoria finale. Un'edizione... ecumenica, variegata di suoni e generi, con tutto ciò che comporta nel bene e nel male, anzi solo nel male, in quanto il numero di canzoni decenti è ancora sceso.

Super Pippo arriva a determinare la griglia dei partecipanti partendo da un colpo di coda derivato dal fatto che le reti Mediaset (allora Fininvest) avevano organizzato nell'autunno precedente un Festival Italiano, con cantanti famosi e no, ma mutuando la formula dalla più antica delle manifestazioni canore. Vinse uno sconosciuto Sal Da Vinci, napoletano, per la cronaca. Ma per evitare una pericolosa concorrenza, fu stabilito che chi andava a Cologno Monzese aveva le porte sbarrate a Sanremo. Eutanasia di un programma televisivo, mentre il Festival è salvo, ma forse ha perso alcuni protagonisti di rilievo. Non si può fare una frittata...

L'innovazione dunque riguarda la prova d'appello delle Nuove Proposte dell'anno passato: mentre il vincitore passa come sempre di diritto tra i Big, gli altri finalisti sono di nuovo convocati per conquistare quattro posti tra i Big, in base a una selezione durante la prima serata. Tra i finalisti dell'anno scorso manca all'appello Silvia Cecchetti (causa Festival Italiano) e Irene Grandi, che temporeggia in virtù del lusinghiero successo ottenuto col primo album e declina l'invito (e se lo potrà permettere).

Ricordandosi del poco edificante livello delle canzoni in gara un anno prima, la formula innovativa non risulta poi tanto incoraggiante, oltretutto considerando le mine vaganti delle giurie. Sono dunque eliminati Francesca Schiavo (Amore e guerra), Giò Di Tonno (Padre e padrone) e Valeria Visconti (E' con te), a favore di Antonella Arancio (Più di così, comunque più interessante di dodici mesi prima), Danilo Amerio (Bisogno d'amore, una delle più insulse canzoni degli anni 90) e Lighea (Rivoglio la mia vita, pop generoso e sincero, almeno una delle poche note di colore), oltre a Giorgia che alla fine smarca tutti e va a vincere, assurgendo a Big in men che non si dica.


CAMPIONI
Lo stile Sanremo non viene certo tradito dalle note di questa Come saprei, scritta a otto mani dalla stessa Giorgia e da Eros Ramazzotti, oltre al solito Cogliati e a Vlady Tosetto (aspirante cantautore negli anni 80). Un blues romantico e sapientemente costruito che fa leva sulle lezioni di jazz apprese della simpaticissima interprete romana, che colpisce e innamora grazie alla sua voce estesa e cristallina. Una vittoria che concilia i pareri della maggioranza con un quanto mai gradito effetto sorpresa.

Secondo posto più canonico con il sempiterno Gianni Morandi, che non resiste alla tentazione di promuovere una giovane voce aprofittando della sua fama. Ecco dunque che Barbara Cola, interprete bolognese poco più che ventenne, si ritrova improvvisamente coperta di gloria, benché non saprà farne tesoro restando una meteora fra tante. In amore è tuttavia una delicata love song impreziosita dalle parole di Pasquale Panella nascosto sotto lo pseudonimo di Duchesca, e in grado di colorare i sentimenti, altrove conditi di superficiali iperboli, con dei percorsi linguistici decisamente azzeccati, senza trascurare la componente dualistica del testo sul quale Gianni e Barbara si alternano abilmente sulle note di Zambrini, navigato compositore anni 60.

E meno male che c'è Panella, perché la banalità sulla Riviera cova minacciosa come sempre, e quest'anno (e non solo) ha le sembianze di Ivana Spagna, per la prima volta a Sanremo, e con il suo secondo corso musicale. Da regina appariscente della discomusic italiana di stampo europeo, ha ormai compiuto la metamorfosi da brava ragazza acquaesapone che inneggia a ideali universali e biechi romanticismi da fiction. Considerando gli incassi elevati dei chioschi di zucchero filato alle fiere paesane (così come Jannacci aveva paragonato il Festival), ecco che la bionda cantante veronese ha buon gioco nelle vendite e nei verdetti e una medaglia di bronzo con questa Gente come noi, minestra insipida sugli amori e odi dell'umanità.

Un exploit che comporta lo sgambetto ad Andrea Bocelli, che per un pelo manca l'ormai tradizionale trafila della Nuova Proposta n.1 più volte divenuta la Proposta Big n. 3. Ci poteva stare anche un po' più di riguardo per questa delicata Con te partirò, sempre in chiave lirica ma non melodrammatica, anzi ripiena di certa solarità mediterranea che mira a trascolorare verso altri paesaggi, "paesi che io non ho mai veduto e vissuto con te" che il testo evoca attraverso i pieni polmoni del cantante versiliano, fino al suggestivo acuto finale su un registro bolero. Tenuto a lungo in naftalina dall'autore veneto Lucio Quarantotto, questo pezzo di fatto lancia definitivamente Bocelli nel panorama mondiale, e rappresenta inoltre uno dei primi casi di canzone veicolo pubblicitario che sarà utilizzato dalla più famosa compagnia di telefonia, alle prese con la prima campagna pubblicitaria in regime di oligopolio, grazie anche all'assonanza del pronome "te" con la marca stessa dei cellulari.

Tornando al Festival, ecco che dietro i sopracitati vincitori ufficiali e morali, arriva il vero sconfitto dell'anno: la atipica partecipazione di Fiorello, reduce dai trionfi del Karaoke su Italia 1, sponsorizzato suo malgrado dalla relazione in atto con una delle conduttrici Anna Falchi, si presenta con la sicumera tipica di quel mattatore televisivo di cui saprà dare dimostrazioni ancora più veridiche, ma con la presunzione di avere già vinto o quasi. La sua canzone Finalmente tu è uno degli ultimi retaggi della collaborazione dei primi 883 (Max Pezzali insieme a Mauro Repetto), una ballad in stile teenager dalla limitata portata cerebrale e i delicati arpeggi di tastiera che la rendono desiderabile come lento alle feste liceali. Un pezzo appena accettabile, non abbastanza per meritarsi una vittoria.

Miglior figura avevano fatto gli stessi 883 giunti ottavi sotto gli exploit degli emancipati Amerio e Lighea. Chiamarli al plurale è comunque cosa ardua, poiché come detto Repetto, che già aveva un ruolo da comprimario nel duo a parte la stesura dei testi, si è messo in proprio lasciando il marchio della mitica dueruote Harley Davidson al solo Pezzali, che in attesa di giustificare la matrice di gruppo con una ricca band, si presenta da solo al cospetto dell'orchestra per cantare Senza averti qui (freudiana dedicata all'ex-compagno? forse no...), canzoncina nostalgica tenuta su da un po' di ritmo dance e da un esperimento di doppio arrangiamento distribuito nei due canali stereofonici: pezzo gradevole senza eccedere.

Il panorama infatti è piuttosto povero benché vario, persino Antonella Arancio rimedia un nono posto e a metà classifica il ritorno sulle scene televisive (e l'esordio nella competizione) per Lorella Cuccarini, figlioccia di Baudo. La più amata dagli Italiani, immarcescibile e solida come una cucina, rinnova con Un altro amore no i fasti dei suoi show con una canzone senza capo né coda, anzi col solito capo e la solita coda, sulla fedeltà in amore, stanca e già sentita.

E scorrendo la seconda metà della graduatoria troviamo pochi guizzi: a parte le ultime tre posizioni, ecco in fila indiana gli esponenti della vecchia guardia che il pubblico puntualmente relega nei quartieri bassi in ordine probabilmente inverso di antipatia a cominciare da Toto Cutugno mai così in basso. Voglio andare a vivere in campagna rientra nell'olimpo dei suoi preferiti capolavori di trash nazionalpopolare, descrivendo i rimpianti di una società rurale di cui l'uomo metropolitano ha perduto le tracce, che tuttavia restano come ricordi dell'infanzia. Su un ritmo di accattivante lambada, Toto pare trasportarci nella sua terra d'origine, la alta Toscana, ma non lesina una certa ruffianeria, aprendo l'esibizioni con le urla del tema principale a cappella e con lunghe pause (laddove nel disco non ve n'è traccia), ispirandosi al suo alterego Celentano di "Chi non lavora non fa l'amore". Alle giurie, mai impeccabili ma comunque al passo coi tempi, non gli par vero di metterlo al diciassettesimo posto.

Sorte poco meno malevola tocca a Drupi, anch'egli telecomandato da Cutugno con Voglio una donna, ovvero patetici deliri da single, canzone che più brutta non si può: come disse un critico "non ha una musica, non ha testo, non ha arrangiamento". Peccato per il cantautore dell'oltrepò pavese, che in passato aveva fatto egregie figure.

Marca male anche Massimo Ranieri: sebbene si riformi il sodalizio con Artegiani & Marrocchi, la bella voce di Napoli stavolta è tradita proprio dalla coppia di autori che gli permisero di vincere sette anni prima. La vestaglia sa di scopiazzatura, avendo una melodia e persino un testo simile a un successo di Aznavour (maestro nel descrivere le crisi coniugali di questo tipo): un vero e proprio scivolone per lo... scugnizzo!

E non fa meglio la Gigliola Cinquetti con Giovane vecchio cuore; l'autore è Giorgio Faletti, l'insieme è dignitoso ma poco convincente per un personaggio come lei che non ci aspetta di trovare così dimessa a esplorare sentieri nuovi con aria distratta.

Lo stesso Faletti che si ripresenta senza più divisa da Carabiniere propone una specie di preghiera senza infamia e senza lode intitolata L'assurdo mestiere, che contiene un apprezzabile ritornello ma si incarta con la sezione centrale in recitativo, sorta di inno di lode a un dio che se c'è è bene tenerselo buono ma se non c'è "come non detto".

Né carne né pesce neanche Mango, sempre in sintonia coi suoni mediterranei, ma pigro nel fare qualche passo avanti nella sua voglia di ricerca, che ottiene comunque il premio come migliore arrangiamento con questa Dove vai, poesia eterea e allegorica che si inserisce senza fatica nel suo repertorio, con la chiara sensazione di aver fatto di meglio.

Fanno invece una dignitosa figura un inedito terzetto di entertainer. Peppino Di Capri, Stefano Palatresi e l'esordiente Gigi Proietti si fanno chiamare Trio Melody e trovano un ritorno di fiamma con la loro passione per la musica da night club: Ma che ne sai (se non hai fatto il piano bar) è una scanzonata rimembranza di una Dolcevita consumata nei locali fumosi pieni di coppiette assortite e una galleria di curiosi frequentatori; il pezzo scritto dall'onnipresente Claudio Mattone è confezionato a dovere, e si rende apprezzabile grazie alla interazione tra le voci, tra cui ovviamente un ingessato Palatresi lascia tenere banco alla classe del napoletano e alle divertenti controscene del poliedricissimo attore capitolino.

Soffermandosi nelle posizioni di coda, ecco un'altra debuttante di lusso. Reduce da una serie fortunata di trasmissioni satiriche, Sabina Guzzanti si cimenta da cantante aiutata dal cabarettista nonché suo compagno di vita Davide Riondino. Lo pseudonimo sotto cui si nasconde l'intellettuale comico toscano, detto Riserva Indiana in virtù del look da pellerossa di Sabina, costituisce un pretesto per coinvolgere sul palcoscenico personaggi più o meno noti, variabili nelle tre serate in numero e formazione, che canticchiano nel ritornello accennando le movenze degli Indiani d'America (vi fa una comparsa anche il giornalista Curzi). Troppo sole nel complesso è originale, ma non funziona a dovere: alla canzone, che ruota intorno ad alcune elementi della mitologia precolombiana, con tanto di colori di guerra che la Guzzanti si pitta sul volto lì per lì, vengono date troppo valenze politiche, volendola trasformare in un'allegoria del pensiero di Sinistra, in quel momento all'opposizione del Governo Berlusconi, ma a prescindere da tutto ciò, è un pezzo che non va oltre il primo ascolto, con esito finale negativo.

Va male anche a Loredana Berté, che va per la sua strada e urla un sincero funky dal nome Angeli & Angeli, dove ribadisce la sua anima solitaria, il suo anticonformismo, la sua libertà ma non manca di chiedere "Aiutami" mostrando in fondo una certa fragilità: un altro dei suoi pezzi viscerali che chiedono di essere capiti più col cuore che con la testa.

Il fanalino di coda spetta tuttavia a Patty Pravo, la quale non ne fa un dramma, poiché è ben consapevole di essersi presentata con un pezzo molto molto elaborato, introduzione di un lavoro somigliante a un'opera di rock sinfonico. I giorni dell'armonia è scritta da due dei suoi collaboratori preferiti, dall'evanescente penna di Ullu e dal genio dell'eclettico Vincenzo Monti che costruisce una partitura complessa, quasi non musicale all'inizio che si apre su un'aria eterea tutt'altro che immediata: una sorta di ultimo posto annunciato, che mantiene come succede spesso la sua dignità artistica, ma stavolta scagiona le giurie, alle quale non si poteva chiedere più di tanto.


NUOVE PROPOSTE
Sanremo mediocre su entrambi i fronti. Anche per quanto concerne i nuovi arrivi. Lo salverà un certo Daniele Silvestri, che merita la prima pagina. Figlio di Alberto, scrittore e autore televisivo (tra l'altro del Costanzo Show) e di una cantante jazz, questo cantautore romano è una delle poche note liete non solo del Sanremo anni '90 ma anche dell'intero cantautorato nostrano nell'ultimo decennio del secolo. Dopo l'album d'esordio premiato al Club Tenco come migliore opera prima del 1994, eccolo a calcare il Teatro Ariston: L'uomo col megafono è il manifesto programmatico del suo genio. Ispirandosi a Dylan, sia per l'introduzione fiabesca a scatole cinesi, sia per l'esibizione con cartoncini colorati riproducenti le parole chiavi dell'inciso, questo accorato appello a dare voce ai veri malesseri dell'uomo moderno invocando una vera solidarietà, "giustizia, progresso, adesso" al di là delle implicazioni politiche che certo non sono nascoste, è certo una canzone fuori dal coro e coraggiosa anche dal lato strettamente artistico, con chitarre distorte, intrecci, contrappunti, una melodia scarna molto confinante col recitativo e un chorus che riproduce la voce amplificata quale retaggio delle lotte di classe, o più semplicemente dell'impegno sociale del militante, basandosi a quanto pare su un personaggio eccentrico che Daniele afferma esistere veramente e quindi non essere soltanto una proiezione dei suoi ideali. Un artista di cui si sentiva il bisogno in un panorama sempre più livellato e asfittico. Silvestri vince a mani basse il Premio della Stampa come Miglior Testo, e ottiene dalle giurie il risultato forse più indicato per chi certo non aspirava a vincere ma soltanto a poter cantare a milioni di persone "compagni, amici, uniamo le voci": qualificato per le finali, arriva ultimo tra i finalisti (piazzamento che a volte è il più lusinghiero dopo il primo posto). Un raggio di sole tra le soliti nubi.

A vincere sono i Neri Per Caso, mentre nascono due idoli per teenager, un paio di belle canzoni vengono puntualmente bocciate, e tutto il resto è noia. Andiamo per ordine: primo premio dunque per sei vocalist d'eccezione provenienti dal salernitano, formati da coppie di fratelli e cugini carnali, che arrivarono al loro provino abbigliati per pura coincidenza con lo stesso colore, da cui il nome. Ma non è nemmeno così avulso l'aggettivo "nero" dal loro modo di cantare "a cappella", stile molto antico e diffuso tra i cantanti di colore, e che vanta illustri precedessori, ma nessuno in Italia al punto che una canzonetta eseguita con il battimani come unico strumento e una serie di modulazioni vocali che fungono da ritmica, basso e accompagnamento, insieme a una polifonia di tutto rispetto, ottiene un ammirato stupore da parte dei giurati, al punto da fare centro anche con una delle tante Mattonate, Le ragazze, sviolinata sull'intraprendenza del gentil sesso e della legge non scritta secondo le quali sono sempre loro a scegliere e tu uomo "ci devi stare". Vittoria meritata per l'idea, malgrado non saranno supportati a sufficienza da valide iniziative artistiche, come spesso succede quando anche i talenti più cristallini vengono asserviti a logiche di mercato che appiattiscono gli entusiasmi e le potenzialità di molti volti emergenti, a favore di effimere e aberranti ricerche al fenomeno da baraccone.

Il secondo posto a tal proposito è un altro obiettivo riuscito per dare nuovi idoli al pubblico adolescente di bocca buona. Ecco dunque Massimo Di Cataldo, rigurgito da fotoromanzo con abiti all'ultimo grido che con questa lacrimevole Che sarà di me solletica gli animi pruriginosi delle ragazzine e i conti in banca della sua casa discografica.

Meno fortunato nella classifica sanremese ma non nelle classifiche italiane, ecco Gianluca Grignani da Milano. Arrivato con una già buona promozione radiofonica all'attivo, faccia da maledetto-per-caso, soddisfa l'altra metà del cielo adolescenziale, di coloro cioè che cercano di darsi un contegno con qualcosa di più marcatamente rock ma alla fine dei conti risultano altrettanto scontati e ripetitivi. Destinazione Paradiso, ballad che scimmiotta Bon Jovi ma nel titolo si ispira in modo alquanto smargiasso a una canzone dei durissimi Guns'n'Roses, è una ridicola sequenza di frasi da eroe post-bellum, mutuati dal più ritrito immaginario collettivo che rimesta dolcestilnovo e supereroi, in un ibrido di una povertà poetica sconcertante, sfruttando una voce trascinata sui denti indecisa se imitare Vasco Rossi sperando che non se ne accorgano in molti. Eppure il giovane Grignani, che dichiarerà di aver scritto il suo cavallo di battaglia "La mia storia tra le dita" come reazione a degli istinti suicidi, andrà a occupare una nicchia vuota, e sarà una realtà del rock italiano, più che mai in cattive acque quanto a ricambo generazionale.

Tornando alla classifica iridata, dopo Neri Per Caso e Di Cataldo, sale sul podio il napoletano Gigi Finizio, con una discreta canzone dal titolo Lo specchio dei pensieri che paga dazio allo stile di Franco Fasano ma denota anche una certa impronta partenopea. Voce intonata benché non lo si possa certo definire una nuova stella, anche se senza volerlo preparerà la strada a Gigi D'Alessio, tuttavia meglio lui di altri finalisti.

Meglio di due voci altrettanto affascinanti quali quelle di Rossella Marcone e Raffaella Cavalli, che però accompagnano due canzoni di cui certo non si sentiva il bisogno. La prima con Un posto al sole che di lì a qualche anno diventerà una fiction italiana, la seconda uscita dalla scuderia (ci perdoni la similitudine...) di Laura Pausini, in una vergognosa operazione di clonazione: Sentimento infatti ha Valsiglio tra gli autori e la bella ragazza minorenne sembra volerla imitare nei gesti e nelle impostazioni vocali. Peggio non si potrebbe...

Guarda caso la terza voce femminile in finale, tale Mara, mostra una certa personalità e idee chiare, prodotta com'è da valenti musicisti facenti capo a Elio e le Storie Tese, ma la sua delicata Dentro di me arriva ingenerosamente penultima nonostante la sua originalità (unico punto debole l'accostamento nel titolo a una omonima canzone di Mariella Nava).

A completare il quadro delle qualificate un ennesimo emulo del Blasco, tale Fedele Boccassini con Le foglie, velleitario e colpevolmente giovanilistico, e un gruppo di rock melodico, capellone in stile Joey Tempest e anche un po' ridicolo, di nome Dhamm (sembra un imperativo napoletano) che per farsi notare (e in parte avranno anche un certo seguito) prendono un titolo facile facile come Ho bisogno di te ma lo rivolgono non alla donna amata, bensì a un padre, come dire metallari sì ma con sentimento (se avessero parlato alla mamma, avrebbero decisamente sgravato...).

Come dicevamo rock in panne, neanche gli esclusi Rock Galileo si fanno rimpiangere con questa frizzante (ma troppo gasata) Le cose di ieri, anche questa stantia come la maggior parte delle canzoni in gara. Detto dei riempitivi Deco con Monica e Fabrizio Consoli con Quando saprai, segnaliamo l'esclusione di tale Flavia Astolfi, che presenta una creatura di Mariella Nava dal titolo Per amore: canzone che si prenderà una bella rivincita qualche anno dopo, quando entrerà nel repertorio di Bocelli, che ne plasmerà la melodia non a caso ariosa e le parole come sempre toccanti della autrice pugliese.

Esperienza infausta anche per Gloria, che vince il Premio della Critica ma scompare comunque dalla scene: Le voci di dentro è una pregevole suite di ispirazione orientale, orchestrata da Celso Valli, dotata di un testo suggestivo e notturno, troppo esotico forse per i gusti sanremesi, ma degno di trovarsi una spanna al di sopra di tante brutture. È dura essere giovani...


GRADUATORIA PERSONALE:
1) In amore
2) Come saprei
3) Con te partirò
Nuove Proposte
1) L'uomo col megafono
2) Le voci di dentro
3) Lo specchio dei pensieri

SHIT SANREMO:
1) Bisogno d'amore
2) Gente come noi
3) Voglio una donna

FRASE DELL'ANNO:
"Ma l'uomo col megafono credeva nei propri argomenti / e per questo andava avanti / ignorando i continui commenti / di chi lo prendeva per matto"
(da "L'uomo col megafono", Daniele Silvestri)

PERLE DI SAGGEZZA:
"Benedetto sei tu per quel ciuffo di pelo nero
/ che se lo hai fatto tu non è roba brutta davvero
(da "L'assurdo mestiere", Giorgio Faletti)

MARIO BONATTI

Continua...