1997: "Allegriaaaa" di naufragi
di Mario Bonatti


Pippo Baudo, al termine dell'edizione precedente, condita come sempre da non poche polemiche, si era dovuto anche ricoverare per un problema alle corde vocali. Questa malattia professionale non ha fatto che da preludio a una sua lunga vacanza dal teatro Ariston, durante le quale si sono succeduti diversi conduttori illustri, sperimentando nuove formule e cambiando di continuo le direzioni artistiche. A cominciare dall'edizione n. 47, edizione che non fa molto per smentire la leggenda cabalistica del "morto che parla". I zombi che si succedono sulla Riviera sono infatti ben lungi dal dileguarsi insieme alla nazionalpopolarità di Mastro don Pippo. Qualche buona proposta la si trova, cercando con cura in un parterre dove predomina il blue jeans: a questa ventata di casual tutti vi si adeguano a prescindere dal loro stilista, e se tra i Big va lodato un tentativo, sebbene altalenante, di guardare avanti, ecco che i Giovani falliscono un'altra occasione, riesumando il più stinto campionario del loro guardaroba. Sicuramente il mondo è fatto a strati e anche Sanremo non fa eccezione, tuttavia nella ricca sezione di nuovi e seminuovi c'è un divario netto tra i pochi elementi di spicco e la ridda di pietanze sciape, introducendo la poco salubre abitudine di uniformare lo standard degli arrangiamenti nella perdurante se non calcolata miopia di chi cerca solo il prodotto con cui sedurre le tasche del medio fruitore (spesso adolescente) e creare idoli di carta con cui sbarcare il lunario per una o due stagioni. Sfumano anche le scoperte di nuove voci, in un risultato di inconcludente sfilata (ma non di moda, semmai di un triste carnevale), laddove un vestito o una pettinatura, o anche pochi accorgimenti melodici e accordali a guisa di suggerimenti stilistici, vorrebbero costituire una metonimia artistica di fatto irrealizzabile. Con queste premesse, non ci si può stupire della vittoria dei Jalisse. La formula si ripete quasi intatta rispetto precedente, ma con due differenze sostanziali e deleterie: l'idea di riproporre per la terza volta le Nuove Proposte finaliste nell'anno precedente cozza contro l'innovazione targata 1996 di mandare tutte le suddette in finale. Risultato: tredici Giovani (stavolta niente defezioni!) che si giocano i soliti quattro posti disponibili. Una lotteria: in più la graduatoria completa scompare a favore del solo podio, senza che si venga a sapere se Cutugno aveva ripreso l'ennesima scoppola da "viale del tramonto" o se i numerosi gruppi emergenti avevano avuto la meglio sugli arzilli veterani. E come se non bastasse, ecco le Nuove Proposte… Nuove dalle quali scaturisce solo il primo posto, senza neanche un'occasione di promozione col secondo e il terzo e una carrellata di canzoni molto somiglianti senza neanche una graduatoria per tentare almeno di distinguerle le une delle altre.
BIG
Trionfa nuovamente il cattivo gusto per le premiazioni: un gruppo emergente come i Jalisse ripetono la parabola di Giorgia di due anni prima, assurgendo a Big dalla porta di servizio; Anna Oxa trova un nuovo piazzamento compiendo un indegno travestimento alla Pausini; e tanto per cambiare la Nuova Proposta campionessa in carica si cucca il terzo posto, sempre in omaggio alla lungocrinita Laura e alle tonnellate di zucchero che il suo stile traghetta e scarica senza sosta da Sanremo al resto del mondo.

L'analisi dei Big va dunque incominciata con la serata iniziale dei Big mancati tra cui ne passano solo quattro, tra i quali i vincitori Jalisse sono coloro che meno degli altri (se non per nulla) avevano avuto riscontro tra le vendite e i passaggi radio dell'anno precedente. Gli altri finalisti infatti sono riusciti a legittimare in qualche modo un posto al sole, che sarebbe dovuto toccare, con questo criterio, anche a Carmen Consoli, futura big, che incassa dunque l'invadenza di questo insulso duo veneto che millanta muse ispiratrici nelle musiche d'oltremanica di medio e alto cabotaggio, tra cui Eurythmics, Clannad ed Enya, includendo giocoforza anche gli intrusi e corrivi Roxette, giusto per giustificare la pacchiana rassomiglianza del loro pezzo con un loro hit. Il ritornello di Fiumi di parole riecheggia "Listen to your heart", ballad del duo svedese del 1991, poco per definirlo un plagio, abbastanza per acchiappare l'orecchio, contando sul fatto che un aggancio simile (l'originale, appunto) era stato già tentato e con buoni risultati nel mercato europeo e dunque: perché non riesumarlo? In più un testo in stile Juli & Julie il cui succo è "basta cianciare, facciamo l'amore" altrimenti detto "ti darò il mio cuore… ora parla con lui", una voce che scimmiotta la corregionale Rettore e una barbuta voce da basso che restando in sottofondo riesce a riproporre con fare smargiasso gli scenari di Minghi e Mietta di 7 anni prima. Vittoria immeritata e grossolana, per una canzone scritta da autori mediocri, tra cui spicca un parente degli autori stessi del Festival (honny soit…?).

Ci consoliamo col secondo posto? Macché: la trasformista Anna Oxa, dopo un giro di vetrine compra il vestito all'ultimo grido ed entra nell'atelier Pausini, facendosi confezionare dagli stessi Valsiglio e Cremonesi un abito i cui lustrini di blues, buoni per i soliti gorgheggi "votebusters", non nasconde la natura di reclutamento di nuove leve (leggi: fans) che contraddistingue questa Storie.

Dai, almeno ci sarà una buona medaglia di bronzo. Figuriamoci: Syria, colpita dal Mattone, resta ancora sotto shock, e trova modo di ripetersi con questa Sei tu ("… che mi manchi… che mi stanchi", la seconda che hai detto!), tremendo bis di "Non ci sto", brodosa congerie di piagnistei da ragazzina semisedotta e superabbandonata. Una premiazione degna di lancio di pomodori! E gli altri a pari merito.

Gli aspiranti Big eliminati ristampano, nel bene e nel male, il loro biglietto da visita di un anno prima, con qualche eccezione. La ex seconda classificata, Adriana Ruocco, arriva con fare furbesco, dopo aver stupito con la sua aria da dodicenne in una canzone in cui raccontava la sua pubertà in atto, presentandosi come chi si fa riconoscere dal vicino d'ombrellone come improvvisamente maturata. In Uguali uguali la timida bimba diventa una fan dei Jamiroquai che balla ritmi adulti e si chiude in casa col suo morosetto, con cui gioca (tra le altre cose non dette) a trovare le famigerate cose in comune. Talento da incoraggiare, ma non in questo modo così ruffiano.

Gli altri a cambiare abito sono in tre. Leandro Barsotti, che tenta la via dello zucchero filato con aggiunta di suoni latini producendosi con una Fragolina che vorrebbe darsi un tono autoironico ma naufraga invece nel pecoreccio ("un pezzo a me un pezzo a te").Petra Magoni la butta sul sociale con Voglio un dio, miscelando pop dalle buone intenzioni con percorsi rap ma arenandosi nei luoghi comuni e nelle pastoie della canzone orecchiabile. Maurizio Lauzi infine, che di stoffa ne ha da vendere, esce dal cerebrale e rende omaggio alla musica brasiliana con Il capo dei giocattoli, delicata favola in chiave infantile e metafisica, di buona fattura anche se piuttosto ricercata e faticosa nell'emergere dalle altre musiche.

E se Olivia con Quando viene sera ribadisce la sua vena country e la sua voce melodiosa, non cambiano di una virgola Alessandro Mara con Attimi, la fatale Camilla con Come ti tradirei, e Alessandro Errico (un Di Cataldo bis) con E penserò al tuo viso, lanciando forti sospetti sul fatto che, consci della formula, avessero quasi tutti già pronta nel cassetto la seconda canzone da cantare sin da quando avevano concepito la prima, in una sorta di operazione in due atti.

Bene fa Marina Rei a conservare la sua identità di cantante soul con questa Dentro me, che le vale una promozione e la consapevolezza di proporsi almeno con qualcosa di diverso dalla massa, pur senza cantare una nuova "Killing me softly".

Il caso Carmen Consoli si traduce invece nella direzione marcatamente rock che la cantantessa imbocca dopo un esordio più acustico, in un percorso artistico che naturalmente nessuno comprende nel breve volgere di una esibizione. Confusa e felice risale infatti a un anno prima ma come conseguenza del debutto: la "gioia immensa" di sentirsi finalmente al centro dell'attenzione e di potersi proporre si incastra come in un domino con la grinta e la determinazione che le sue chitarre urlano con fare da navigata rocker. L'ormai celebre "Vorrei / tentare" (col vocalizzo distorto), oltre che una sincope mozzafiato riassume la voglia di essere sé stessi e di "difendere questo momento" di confusione e felicità, ben sapendo quanto sia difficile a volte per i sogni durare così a lungo. L'eliminazione di Carmen non farà che confermare questa premonizione, il suo talento tuttavia non le impedirà successivamente di invertire questa tendenza del "bravo-ma-incompreso". E allora pazienza: Sanremo non l'avrà meritata abbastanza.

Vanno in finale invece gli O.R.O. e la possente ugola di Silvia Salemi. Per la band toscana, si tratterà di una promozione forse eccessiva ma favorita dal connubio con Enrico Ruggeri che almeno aggiunge un pizzico di energia alla loro sdolcinatezza, per quanto questa Padre nostro, preghiera rivolta al Dio della nostra cultura, non brilli come il miglior testo di Ruggeri, anche a causa dei soliti ricorsi al mondo che sanguina mentre l'entità superiore sembra guardare e non fare nulla. (e il solito Bongiorno che li annuncia intimando "in ginocchio e pregate", ommamma!).

Per l'altro personaggio siciliano invece, che si è rapata a zero mettendo in risalto la sue labbra prominenti, sarà una maiuscola affermazione e una consistente fetta di notorietà: A casa di Luca è un pezzo ispirato e acustico di Artegiani dove si descrive un luogo ideale, un ritrovo di amici, che sanno comunicare lontano dai frastuoni di sabati sera caotici quando "l'epoca del tum-tum-cia-cipatupatum-c'ha scolpito il cuore" (gradevole onomatopea della techno). Questi due neo-Big, nella classifica provvisoria della seconda tranche, risulteranno ai primi posti (prima Silvia Salemi, secondi O.R.O., terzo Fausto Leali), mentre nella prima serata si era anticipata la graduatoria finale, nella quale una Salemi avrebbe certamente avuto un senso più valido della solita Oxa.

Sull'ex aequo dei non premiati, naturalmente vanno messi i puntini sulle i. Numerosi debuttanti assoluti a Sanremo, tra la fascia cosiddetta di target giovanile, balzano all'occhio, insieme ad alcuni elementi della vecchia guardia che tentano un lifting. Elencandoli in ordine alfabetico troviamo solo gruppi dai nomi ricercati: Cattivi Pensieri, Dirotta su Cuba, Pitura Freska, Ragazzi Italiani. I primi due non sono altro che un parto delle rampanti radio, ciascuna con qualche modello da imitare e nel peggiore dei modi.

Cattivi Pensieri, band di damerini con bionda mozzafiato a fare da leader, ricorrono all'abusato processo di banalizzazione del pop, senza disdegnare qualche trovata smargiassa: il refrain di Quello che sento riecheggia il primo Ramazzotti, le parole non riecheggiano nulla ma suonano come una campana spaccata.

Fanno peggio i Dirotta su Cuba, esponenti della più stucchevole versione dei gruppi che negli anni '80 avevano costituito una nuova via del pop, imparentandolo con generi altri. Questa band ricca di suoni funky jazz dimostra che mettendo qualsiasi animale in gabbia, questi diventa un bersaglio per dispensatore di noccioline. Fuori di metafora, i suoni proposti da questi sedicenti musicisti, compresa la voce della solista, sono un riassunto appiccaticcio del movimento dei "pentiti del rock", la risposta deleteria dei già deleteri Swing Out Sister, condita dalla solita pigrizia testuale dei gruppi emergenti nostrani. È andata così sembra anche nel titolo il riassunto della loro pochezza artistica, che non riesce a esaltare neanche un illustre musicista come il belga Toots Tielemans, il più grande armonicista vivente ospitato nelle esibizioni festivaliere di questo pezzo.

Fanno la loro dignitosa figura i veneziani Pitura Freska: il gruppo reggae-ma-non-solo capitanato dall'eclettico Oliver Skardy non cambia di una virgola il proprio stile rispetto ai suoi primi due fortunati album e si propone con l'ironia e la spensieratezza del suo leader, tra il demenziale, il satirico e il ricercatore di summe stilistiche, con in più un ricorso al dialetto che tenta anche di compiersi all'interno di una operazione filologica di recupero delle radici culturali, tutt'altro che leghista beninteso. Papa nero riprende su un ritmo giamaicano una delle profezie di Nostradamus che vaticinava l'elezione un pontefice dalla pelle scura per la fine del millennio, e la accosta alla recente elezione a Miss Italia di Denny Mendez, la celebre reginetta di colore.

Quanto alla prima boy band italiana, Ragazzi Italiani appunto, non possono mancare i paragoni con le band anglosassoni: non cambia la ricetta della canzone ritmata da confezionare per le teenager in tempeste ormonali, eppure nella pur corriva Vero amore, non scevra dalle solite operazioni a tavolino, si può scorgere un ricorso in chiave di omaggio al blues dei neri, insieme a una coreografia oculata dei cinque vocalist che dimostrano di sapere muovere il corpo proponendo, nelle tre esibizioni, un balletto sempre diverso.

Un debuttante di lusso è invece Francesco Baccini, convinto detrattore del Festival, che si prende gioco nel modo più goliardico della manifestazione presentandosi con questa Senza tù in chiave swing: già il titolo sgrammaticato è uno sberleffo programmatico, che fa da premessa a un testo che fa letteralmente a pezzi parecchie situazioni apparse in quasi cinquant'anni di storia sanremese, sia attraverso frasi deliranti ("Senza tù il mio cane non studia più"), sia con l'esibizione divertita di intuizioni stantie, sia con apposite citazioni celebri, una calcolata compilation di plagi che si realizza anche nella melodia e nell'arrangiamento. C'è chi ha contato fino a diciotto riferimenti a canzoni del passato (nel finale c'è molto de "L'immensità" di Don Backy), ma fatalmente l'ha bollato come ricopione, senza minimamente calcolare la satira insita in questo pezzo che proprio per queste ragioni si merita la palma di migliore. Del resto, anni prima, lo stesso Baccini aveva preso per i fondelli il mito degli anni '60 con "Qua qua quando", ricevendo commenti del tipo: "finalmente una bella canzone come si faceva una volta". É il destino dei geni?

In questa edizione che sembra molto transitoria, trovano spazio due pezzi destinati a diventare in qualche modo degli evergreen. Patty Pravo torna con un valido testimonial del calibro di Vasco Rossi, che insieme a Carboni aveva composto questa ballad che parla di un amore tra due sbandati, canzone scritta e lasciata in un cassetto di cui la Nicoletta si impossessa, mandando in visibilio la critica più esigente. Se E dimmi che non vuoi morire si avvale di un'interpretazione suadente e discreta, resta tuttavia un pezzo marginale tra quelli scritti dal rocker, anche considerando le sole ballad: pieno di zeppe testuali e di elementi presi dal manuale del perfetto maudit, stanco nel refrain e troppo debole nel tappetto di sax, ha tuttavia il merito di rinnovare il mito della ragazza del Piper.

A volte basta una canzone per vivere un'età dell'oro. È il caso anche di Nek, che torna dopo 4 anni e dopo aver conquistato in parte un suo pubblico con le proprie gambe. Tuttavia Laura non c'è diventa il suo pezzo da novanta: un folto pubblico di adolescenti si scopriranno tutte pazze per i suoni velatamente rock (con echi del primo Gianni Bella) e la voce squillante dell'emiliano che confeziona, con tutti i crismi e le procedure della forma-canzone, la versione aggiornata del maschio latino che dice sconsolatamente a una ragazza che in fondo è sempre innamorato della sua fidanzata ufficiale che non è presente ma lo è nello spirito. Del resto ogni generazione ha la sua canzone del filone "imbarazzo della scelta", ricordando che in fondo un paio di corna sono molto realistiche e riempiono bene una canzone o una romanza.

Presenze di contorno sono le rimanenti: tra queste, l'ex-secondo Toto Cutugno che non sfigura con questa distesa Faccia pulita, depurata da ogni ruffianeria che ci restituisce l'autore sensibile di molte belle canzoni scritte per sé e per altri, condendo il tutto con una tromba d'atmosfera, impasti vocali e una semplicità che si specchia in un volto di adolescente di cui Toto descrive le paure e le speranze. Le parole "Fai sempre quello che ti dice il cuore" cantate nel ritornello magari richiamano al famoso romanzo della Susanna Tamaro, best seller del momento.

Ed eccola la scrittrice prestare la sua opera nella canzone di Tosca Nel respiro più grande, blues senza pretese ma gradevole e intriso di un'aura da innamoramento metafisico, in fondo una degna gratificazione per colei che era stata solamente la accompagnatrice del vincitore Ron un anno prima.

Due pennellate di blues da parte di Fausto Leali con Non ami che te senza infamia e senza lode, una ventata di sano gospel per Albano con una ottimistica Verso il sole, una piacevole vacanza cantautorale per il sempreverde Massimo Ranieri con Ti parlerò d'amore che rilancia la penna di Gianni Togni (in coppia con Guido Morra) per il quale canterà diversi pezzi per alcuni musical, e la sfilata è fatta.

Manca da ricordare un inutile pezzo dei New Trolls, sempre più ombra di sé stessi con Alianti liberi, con l'aggravante di lanciare una giovane voce di una certa Greta che non lascia neanche lei la benché minima traccia, al punto che la presenza del gruppo che fu la si noterà soltanto quando, nella serata finale, Nico De Palo inviterà la platea a una standing ovation in memoria di Ivan Graziani, scomparso il 1° gennaio di quell'anno.

E a proposito di saluti estremi, ecco una viscerale Loredana Berté che si presenta con Luna, pezzo rock di solida fattura, ben supportato dalla sua voce graffiante, che ricorda neanche tanto nascostamente la sfortunata sorella Mia Martini (morta nel maggio del 1995), sfogando il suo senso di solitudine per una ferita non ancora riemarginata, fino a rivolgersi a Dio con un sentimento di rabbia che fa pensare a una bestemmia trattenuta a stento. Inoltre il verso iniziale della canzone "occhiali neri, luna" non sarà altro che una diplomatica censura, poiché nel disco la canzone, dopo un riff di chitarra parte con uno spiazzante "E vaffanculo, luna": un accostamento delle due parole che rimanda in parte al suo passato artistico, come a volerlo dare indietro in cambio di una persona cara che non c'è più, ma anche usandolo come un bersaglio prescelto che abbia un che di metafisico e quindi divino.


NUOVE PROPOSTE
Mai come quest'anno (e anche il seguente) l'analisi delle Nuove Proposte si risolve in poche e poco gratificanti parole. Senza un certo Niccolò Fabi da Roma, la stampa avrebbe avuto serie difficoltà ad assegnare l'annuale premio della Critica, da due anni ormai intitolato a Mia Martini.

Vincono due sorelle: Paola e Chiara Iezzi, dopo una gavetta come coriste degli 883, piombano a Sanremo proponendo un'idea nuova di bellezza femminile, un canto all'unisono e naturalmente il bersaglio (leggi: target) puntato sul pubblico adolescente, al quale paiono voler indirizzare dei suoni più ricercati, ispirati a spada tratta alla verde Irlanda, sempre con i piedi piantati nei traumi da teenager. Amici come prima infatti è la parossistica messa in telenovela dei soliti turbamenti tra compagni di liceo. Nel segno dei tempi (Max Pezzali docet) neanche le rime servono più a granche, e così le regole di metrica: le parole si appoggiano con disinvoltura sugli appositi spazi per sillabe, con la risultante di rime solo teoriche, che vanno anche oltre le assonanze. Il successo di queste due ragazze spumeggianti tuttavia ispira un minimo di fiducia, se non altro perché come Nuova Proposta è una… proposta nuova, anche se ben lontano dalla nascita di un vero e proprio fenomeno musicale, e la loro metamorfosi degli anni Duemila ne darà una triste conferma. Ma certo non era improbo sbaragliare la concorrenza.

Uno dopo l'altro sfila una carrellata di sconcertante pochezza artistica. Dai novelli rampanti come Miki Mix (in un poco plausibile rap romantico), come Luca Lombardi (che sembra partorito dalla tv di De Filippi), come un velleitario rocker di nome Paolo Carta, fino a uno sgolato Massimo Caggiano, che riesce anche a non far capire a chi si ispira. Ancora più scipite le minestre di tale Vito Marletta, imbarazzante anche per certe feste patronali, e per l'esercito dei cloni, quali Tony Blescia (patetica copia di Raf), Domino (sincretismo delle rocker in gonnella con licenza di urlare) Randy Roberts (figlio di Rocky che non ne vale un ventesimo), fino ai Doc Rock, che almeno hanno dalla loro la penna di Giampiero Artegiani che riflette con una certa lucidità e intelligenza sulle luci e ombre di un Secolo crudele che volge al termine, ma certo non brilla di nuovo né fa da premessa a un progetto tale da ruotare intorno a una rock band da seguire con interesse.

Si salva la voce splendente di Alex Baroni, una sorta di secondo classificato morale, che plasma un blues innocuo sulle pene d'amore dal titolo Cambiare, e mette in risalto delle straordinarie doti di cantante soul, meritandosi i complimenti da molti suoi colleghi illustri. Una specie di Giorgia al maschile (faranno anche coppia per un buon periodo), che non sarà sempre supportato da progetti musicali degni del suo talento, e la cui fine prematura per un assurdo incindente stradale con la sua moto avvenuta nel 2002 lascerà incompiuta la sua parabola da interprete. E' tuttavia un esordio di tutto rispetto, al pari del già citato Niccolò Fabi.

Suo padre faceva il tecnico del suono a Ivan Graziani, mentre lui giocava con i coetanei figli del cantautore abruzzese. Il suo talento maiuscolo, insieme alla sua profondità artistica emerge sin da questa Capelli, autentico biglietto da visita che spiega con autoironia la sua stramba zazzera lunga e irregolare che sembra non aver mai conosciuto un pettine, il tutto comparandola con una visuale di vita, e quindi anche di stile musicale, scevri da qualsiasi convenzione premasticata. Le numerose e felici similitudini, insieme a pochi richiami alla bandizione di ogni ipocrisia sociale, in un tappeto country leggero e godibilissime chitarre ritmiche, ne fanno un piccolo gioiello di una nascente scuola cantautorale che tenterà, a fatica, di sparare alcune nuove cartucce in un panorama sempre più tendente al riciclo e alla sopravvivenza dei miti di ieri. A fatica, visto il vuoto desolante che Fabi lascia dietro di sé, unico umano in mezzo a tanti manichini che vengono denonimati "giovani cantanti".


GRADUATORIA PERSONALE:
1) Senza tù
2) Papa nero
3) A casa di Luca
Nuove Proposte
1) Confusa e felice
2) Capelli
3) Cambiare

SHIT SANREMO:
1) Fiumi di parole
2) Storie
3) Sei tu

Nuove Proposte
1) Ora che ci sei
2) Fragolina
3) E penserò al tuo viso

FRASE DELL'ANNO:
"Io sono uno che porta i suoi lunghi capelli per scelta
e non usa trucchi
e voi levatevi la parrucca"
(da "Capelli", Niccolò Fabi)

PERLE DI SAGGEZZA:
"Non andare via
fragolina mia
non lo vedi che lo adoro
quel tuo culetto d'oro?
(da "Fragolina", Leandro Barsotti)

MARIO BONATTI

Continua...