1999: Fazio...so con moderazione
di Mario Bonatti


E così arriva il momento della gestione Fazio. Coerente con il suo modo di intendere la televisione, il popolare presentatore di "Quelli che il calcio…" avvia un biennio in cui la musica di una certa qualità riesce anche a farla da padrone sull'arena del Festival. Roba da gridare al miracolo, anche se Sanremo è sempre Sanremo, come recita lo slogan di baudesca memoria, che si aggira in perfetto stile "fantasma dell'opera" e lascerà qualche segno nefasto, naturalmente per quanto riguarda il verdetto delle giurie. Il nuovo sistema di votazione è interessante: la prima serata votano le giurie demoscopiche consuete, mentre nella serata finale vota una giuria di qualità composta da personaggi eminenti della musica e dello spettacolo, presieduta nell'occasione dall'attore e regista Carlo Verdone. Il punteggio finale va calcolato dando un peso del 50% a ciascuna votazione. Tutti tranquilli, allora: eppure non mancheranno le ombre, dal momento che le giurie, votando con la classifica parziale già conosciuta, erano in grado di pilotare senza problemi la votazione finale, a scrutinio segreto, quasi decidendo a tavolino a chi dare il premio e soprattutto a chi non darlo, per poi votare di conseguenza, consuetudine abbastanza diffusa nelle manifestazioni cinematografiche, dove vige la regola del "non premiare film che pochi o nessuno andrebbero a vedere". Secondo questo ragionamento, le vittorie della spumeggiante Anna Oxa, e del rampante Alex Britti, stanno a pennello. E scatenano polemiche a non finire, soprattutto se si pensa che la Ruggiero avrebbe meritato anche lei una vittoria riparatrice dopo il caso Minetti dell'anno passato, dopo che la storia festivaliera era più volte ricorsa a simili processi nemesici. Per il resto, le graduatorie finali riescono a dare in parte un'inversione di tendenza, sollevando di qualche posizione le situazioni di qualità, che le giurie popolari non hanno comunque gradito e penalizzando le soluzioni troppo giovanilistiche, con qualche cadavere eccellente. Ma a parte le leziosi disquisizioni sul questa o quella posizione di classifica, è un Festival che propone buona musica, spazia in tutti i generi, presenta meno canzoni ma alza il livello e la credibilità del singlo artista, specie se debuttante.


BIG
Vince Anna Oxa e "Senza pietà" e le virgolette sono un optional. La sua verve da vamp e il suo ritmo accattivante conquista e strega. La canzone non è irresistibile, ci restituisce in parte la Oxa tutta grinta alla quale ci si era abituati (rispetto alla versione languida e lacrimosa di altre edizioni), ma appunto non porta nulla di nuovo, tranne qualche vago suono esotico e i soliti gorgheggi che reiterano messaggi in chiave sentimentale fin troppo stereotipati.

Andava premiato il coraggio di Antonella Ruggiero, che con Non ti dimentico, dà un ulteriore saggio della sua poliedricità, mantenendo la sua aurea di artista alla ricerca di sonorità universali, senza etichette se non quella di una melodia fresca, ariosa (nel senso melomane del termine), un dispiego vocale elegante che non cada nel tranello di volere a tutti i costi dimostrare quanto sia "brava" (come la omonima canzone di Mina, per intenderci...), il tutto accompagnato da un linguaggio poetico evanescente e puro, non avulso da una ricerca musicale che vada aldilà del valore semantico di questa poesia d'amore. Toquinho, uno dei membri della giuria, confesserà: "Ho tradito la Ruggiero per la Oxa". E va be'... si vede che l'occhio ha voluto la sua parte.

Il terzo posto giunge invece senza alcuno strascico e premia finalmente una veterena del Festival e una autrice sensibile. Mariella Nava, coerente con il suo credo artistico, merita la medaglia di bronzo: Così è la vita, pur non essendo la sua migliore canzone presentata, è una ulteriore e originale visuale della sua musicalità, solare ma non banale, a cuore aperto, un inno alle bellezza dell'esistere, in chiave laica con punte naif dalle pennellate tenui (compreso il gorgheggio "la la la"). Un'artista che non va nelle Hit Parade, ma che continua a tenere viva la fiammella della tradizione musicale italiana, la stessa che molti colleghi cantautori suoi ispiratori, sembrano volere accantonare.

Nella graduatoria finale, tornata nella versione integrale, la mano della Super Giuria si fa sentire anche nelle posizioni di coda, non più appannaggio delle proposte più coraggiose, le quali, puntualmente incomprese dal popolino guadagnano posizioni nella serata di sabato, a svantaggio di quelle più giovanili. In questo senso si assiste a un crollo verticale del povero Di Cataldo (dal settimo all'ultimo), di Grignani (comunque già abbastanza basso), Panceri (dal sesto al dodicesimo) fino a Finardi, che certo non è giovanile in senso stretto ma viene bistrattato e scivola dal quinto all'undicesimo posto. Forse una distinzione insieme fanno una piccola dittatura? Chissà, non scomodiamo la politica. Certo, Di Cataldo, ultimo della classe, si sfogherà il giorno dopo a "Domenica in" (sempre in onda da Sanremo), dando degli incompetenti tout court ai membri della giuria ("Se hanno mai comprato un disco, è stato negli anni 60..."): patetico a dir poco, come patetica è la sua proposta musicale Come sei bella (ripetuta a iosa nel testo!), zuccherosa ballad per quattordicenni, irritante nelle sue banalità e cantata con un falsetto da brividi (immaginate che brividi). La maglietta col numero 10 sempre indossata, (come il nome dell'album), Di Cataldo del resto non può che assomigliare sempre a sé stesso, e in fondo il suo zoccolo duro ce l'ha, sebbene tenti con questa ennesima ruffianeria di ripetere gli exploit degli esordi.

Analogo discorso per Gianluca Grignani, che si posiziona sul fronte del rock maledetto, rock che più che "maledetto" si risolve in un... "detto male". Un testo incollato con la saliva, gonfio di zeppe testuali per teenager per dire poi davvero poco: edonismo da ventenne, copia della copia della copia di una gioventù bruciata ma male direi bruciacchiata, questo è (si fa per dire) Il giorno perfetto (vivere come se fosse...) auspicato dal milanese prima di proprompere nei soliti terribili "sha na na na".

Penalizzato oltremisura Gigi "Gatto" Panceri, che si affida una tantum a una classica ballad: Dove dov'è si distingue come sempre per il suo testo originale e la sua voce graffiante in omaggio al suo nick, ingenerosamente relegata come proposta troppo frivola, considerando anche il livello elevato di questa edizione.

Trattamento di sfavore anche per una colonna del rock italiano, Eugenio Finardi, arrivato quinto nelle votazioni popolari, scivola di sette posizioni, forse incompreso dai giurati che probabilmente avranno avuto poca cognizione del suo passato artistico. Amami Lara è un pezzo rock attualissimo sia nei suoni, senza rinnegare naturalmente gli anni 70, che si rivolge al personaggio virtuale Lara Croft, avvenente eroina dal seno prosperoso protagonista di alcune vendutissime playstation. Il delirio dell'ipotetico fruitore di videogiochi (senza età ma dall'indole piuttosto infantile) che si smarrisce in un delirio sospeso tra autoerotismo e idolatria è reso con estrema ironia e partecipazione, ma senza condannare né esaltare, solo per segnalare i segni dei tempi, pratica nella quale il cantautore milanese è sempre stato abile.

C'era dunque molta concorrenza, e come sempre succede le proposte migliori si situano a metà classifica. Dunque i due fanalini di coda delle votazioni giurate si portano in posizioni più ragguardevoli. Incompresa Nada che a dispetto della vox populi, fa la figura del vino che più invecchia più si insaporisce. Guardami negli occhi riassume il percorso artistico intentato dall'artista livornese negli ultimi anni. Un pezzo di rottura, denso di rimandi a un pop fuori dagli schemi (un arrangiamento superbo!), con echi viscerali di un malessere esistenziale che colora di rosso o di nero un rapporto perdendosi in regressioni mentali laddove era necessario seguire il consiglio del titolo, quello cioè di votarsi alla sincerità.

Altro incompreso è Daniele Silvestri, scevro da ogni logica festivaliera, che si presenta dopo quattro anni con un altro pezzo antisanremese, destinato a vincere a piene mani il premio della critica e quello del miglior testo. Aria è una storia dai contorni sfuocati di un detenuto ergastolano che in qualche modo (senza che le parole lo spieghino) arriva a uscire da un carcere di massima sicurezza (chiamato col nome dell'ex penitenziario dell'Asinara, nella Sardegna nordoccidentale) prima della sua morte. Che sia evasione, amnistia, male incurabile, o condanna a morte, non ha importanza. Il senso di libertà che prova questo personaggio nel tornare a respirare l'ossigeno che si trova al di fuori della sua prigione, riveste di gioia indicibile questi momenti che si apprestano a essere gli ultimi di un'esistenza forse densa di stenti e privazioni. Un arrangiamento rarefatto ispirato ai Radiohead, effetti percussivi fuori tempo, per una poesia dei tempi moderni dove Daniele Silvestri imprime il suo sigillo di artista genialoide.

Sempre tra le voci figlie degli anni 90, ritorna Marina Rei, sempre attenta a riassemblare suoni al passo coi tempi col suo timbro caratteristico. In Un inverno da baciare affiorano qua e là cose già sentite (qualcosa di Peter Gabriel nel chorus), ma resta un progetto artistico oculato e di buona fattura, con qualche riserva riguardo alle parole non tanto fresche per ispirazione e contenuti.

Una band altrettanto popolare tra le nuove generazioni, a dispetto della loro già lunga carriera, gli Stadio, raccoglie il loro migliore piazzamento con Lo zaino. Curreri e compagni, tutt'altro che rilassati e sempre in grado di rimettersi in gioco, recuperano un pezzo del loro maestro Vasco Rossi. Il tema è immerso nelle tematiche adolescenziali, già a partire dal titolo che rimanda all'universo scolare. Tuttavia, con pochissimi ingredienti, e l'ausilio della voce suadente di Gaetano (a tratti sospesa magistralmente in recitando), questo breve messaggio d'amore o presunto tale rivolto da un ragazzino a una ragazzina si colora di tenerezza sconfinata, soprattutto se si intuisce che l'affetto può non essere ricambiato, e che quindi si tratta soltanto di un gesto estremo di chi, magari insicuro o fin troppo realista, rivela, con un semplice biglietto o un regalino, la sua cotta prima di sparire di scena dal suo cuore e dalla sua vista. "Ho nascosto qualcosa nel tuo zaino... che nessuno ti veda mi raccomando... voglio solo che tu sia felice". Non è detto che vi manchino elementi freudiani legati al rapporto sessuale, ma non ci è dato sapere se il Blasco l'abbia concepita con queste premesse psicoanalitiche.

Davvero un Festival coi fiocchi: anche la cosiddetta vecchia guardia si mette in grande spolvero. Albano, non più marito di Romina Power, si appropria del suo cognome Carrisi, come non aveva fatto neanche agli esordi, e canta una serenata dolceamara alla vita, dove le mille amarezze, benché abbiano scavato rughe profonde, sembrano allontanarsi dopo un improvviso quanto necessario spiccare di ali. Ancora in volo è il manifesto programmatico, sia artistico sia esistenziale, dell'artista brindisino e del suo new deal, la cui voce non perde smalto.

Una grossa sorpresa viene anche da Nino D'Angelo: se nel 1986 con "Vai" era rimasto fedele al suo genere tradizionale, ma aveva tuttavia messo la prima pietra per il primo contratto con una multinazionale, ora si cimenta con la musica etnica, spiazzando tutti e sfiorando un clamoroso premio della critica. Nino è Senza giacca e cravatta in tutto e per tutto: vestito di nero, rinnegando il suo sgargiante abito di tredici anni prima, riflette sulla fortuna da lui conquistata nella sua vita di uomo e artista, ripercorrendo i suoi inizi, le sue povertà, quando la giacca e la cravatta non le indossava ma non per scelta. Una bravissima corista di nome Brunella Sero lo accompagna interpretando il ruolo della Musa (o della Dea Fortuna) a cui si rivolge devoto e riconoscente, su un tappeto di percussioni e sonorità mediorientali di indiscussa bellezza. Una autentica rivelazione.

Non sorprende invece il fascino della coppia formata da Ornella Vanoni e Enzo Gragnaniello: con un pezzo del cantautore napoletano, all'esordio sanremese, Ornella dà lustro a una poesia simbolista che si ispira a uno degli elementi più consueti in natura. Alberi diventano così lo specchio della propria vita e dei propri stati d'animo, ma sono anche oggetti animati, presenti nei paesaggi del mondo reale, che non si accontentano di servire passivamente i poeti di passaggio. Anch'esso con reminescenze da World Music, è cantato parte in italiano e parte in dialetto, ma con effetto a sorpresa è Ornella a cantare in napoletano e l'autore a intonare i versi in madrelingua. Occasione propizia per consegnare alla Vanoni il premio alla carriera, così come fu conferito dall'Ordine dei Giornalisti a Murolo nel 1993, e come sarà destinato a Tony Renis nel 2000.


NUOVE PROPOSTE
Belle canzoni dunque: e se faccciamo un giro tra le Nuove Proposte, ne troviamo altrettante! La vittoria di Alex Britti, la cui proposta certo non è la migliore, si preannuncia con largo anticipo, considerato il battage radiofonico di cui il neonato esponente della scuola romana aveva goduto con due tormentoni quali “Gelido” ma soprattutto “Solo una volta (o tutta la vita)”. Sono messaggi per adolescenti, compreso questo blues, dove si parla di una infatuazione da autobus mattutino (tipico studentesco) verso una ragazza forse anche sconosciuta, facendo bene attenzione a sottolineare che "mi piaci per davvero / anche se non te l’ho detto / perché è squallido provarci / solo per portarti a letto". Commento spontaneo: se la vuole portare a letto! Oggi sono io sta a significare (almeno lo si intuisce) una certa sincerità di fondo di un innamorato che vuota il sacco dei sentimenti, come dire "oggi mi vedi come me stesso". E’ un blues comunque interessante che ci mostra un Britti eccellente chitarrista, in un crescendo vocale non così malevolo, anche se toccherà a Mina, due anni dopo, plasmarla in una canzone degna di nota. Ma la nuova proposta è lui, e questa vittoria lo lancia nel gotha dei cantautori dall’ampio potere d’acquisto. E forse meglio lui che una vittoria melomane di una Bocelli in gonnella: Filippa Giordano e Un giorno in più, più che il tenore toscano rimanda a Irene Fargo, con una ridda echi lirici dove viene messa in risalto una cristallina voce da soprano che nasconde le pecche di un pezzo scialbo e consueto, da Madama Butterfly degli anni 2000.

Ma allora dov’era la bella musica? Eccola al terzo posto: Leda Battisti, nipote di Lucio ma senza frequentarlo neanche nella cerchia familiare, è un’artista dalle idee chiare. Già impostatasi con un pezzo molto radiofonico ma di qualità quale “L’acqua al deserto”, prorompe (è il caso di dirlo) con Un fiume in piena, ritmo flamenco vorticoso e accattivante, supportato da una voce che sembra nata dalla fusione di Kate Bush, Janis Joplin, Carmen Consoli, e Antonella Ruggiero, ma senza perdere un timbro originale, laddove le parole di lode verso una presenza maschile, benché inconsuete in una voce al femminile, sono secondarie rispetto all’elettrizzante effetto sonoro di questo pezzo tra i più godibili degli ultimi anni sanremesi.

Il resto della classifica, come per i Big, è un incontro tra i pezzi difficili bocciati dalle giurie e giubilati dai giurati Big, e i tentativi falliti di nuove istanze tecnologiche, progetti falliti sul nascere forse per assenza di personalità artistica autonoma. Non a caso, la maglia nera Irene Lamedica, benché prodotta da Jovanotti e Saturnino, benché con un blues da non buttare via, rimanda troppo sfacciatamente per timbro e registro alla già consacrata collega omonima dai numeri più... Grandi. E in fondo Quando lei non c’è, è la solita situazione da tradimento il cui apporto poetico è pari a zero e l’interpretazione troppo velleitaria.

Con pochi ingredienti variati, Elena Cataneo fa una figura molto più convincente, aldilà del sesto posto: Nessuno può fermare questo tempo è un incontro ben riuscito tra blues, hip hop e rap, con la partecipazione del rapper Max Callà. Pezzo generazionale che si sforza di non scivolare nei soliti vaticini da scrivere sui diari nell’ora di buco. Il valore aggiunto sta nel non indugiare troppo nei referenti artistici più o meno espliciti, bensì nel dare una significativa seppure piccola direzione in avanti.

Cosa che non hanno i fatto i Dr. Livingstone con una futuribile Al centro del mondo (ma il futuro è arrivato già, cari ragazzi!). Riferimenti a Internet a parte, questa band si rifà in tutto e per tutto a una band neanche tanto affermata a livello discografico, gli Ustmamò, ma se i cloni dei pezzi da novanta sono prevedibili, i cloni dei prodotti di nicchia, risultano alquanto ridicoli; specie se a questi si aggiunge un pezzo in ritardo di almeno vent’anni (vi ricordate Diana Est? No, pazienza). Penultimo posto meritato dunque.

Liquidiamo dunque le due altre proposte infelici; la quarta classificata, Arianna, è un rigurgito isolato del pausinismo, quest’anno presente deogratias solo in questa voce mielosa, doppiatrice della Sirenetta disneyana, con C’è che ti amo dalla melodia irritante e dal testo che istiga nei commenti a metafore poco fini.

Bocciato anche tale Boris con Little darling: buona l’intenzione, ma troppo poco omogenee le tessere di un puzzle che anche completato, e con faticosi incastri, non si intuisce se sia un omaggio ai nuovi suoni d’oltremanica, o un aggiornamento del country di casa nostra. Ecco finalmente quelli davvero bravi: azzardiamo un ordine di bellezza crescente.

Complimenti alla voce graffiante di Allegra, cognome Lusini come suo padre Mauro, voce affermata negli anni 60, autore raffinato nei 70 (seguì la rinascita artistica di Nada): Puoi fidarti di me si fa ascoltare volentieri e fa la sua figura in chiave rock.

Analogamente Francesca Chiara, riesce a ben figurare con Ti amo che strano: si intuisce che il suo background è fin troppo avulso da Sanremo, di marca rock britannica stile Morissette o O’ Riordan, ma questa ballad densa di chitarre distorte, è un punto di incontro in perfetto equilibrio tra parole a sfondo sentimentale (ma è sempre bello e più sincero ascoltare di una donna innamorata a prima vista) e la sua voce graffiante e particolare, che esalta una melodia facile ma straordinariamente sottoposta a un make up timbrico e alcune rime azzeccate.

Buona prova anche per i Soerba, forse un po’ sopra le righe ma divertenti e autoironici con un pizzico di parodismo sulla stessa elettronica di cui si fanno portavoce nella consapevolezza di non essere arrivati per primi, anzi. Noi non ci capiamo, unitamente ad altri loro pezzi quali “I am happy”, sono epigoni di un certo pop, figlio di Camerini o di altri esponenti minori degli anni 80, che tuttavia non manca di un certo gusto demenziale, la negazione della melodia (frasi quasi tutte monotone) e un ricorso al linguaggio funambolico tra tautologia e surrealismo. Non c’è comunicazione nei nostri tempi? "Eppure usiamo lo stesso linguaggio... usufruiamo circa della stessa madrelingua"!

Una nuova figura cantautorale si affaccia e il nome è Daniele Groff. Adesso è il suo biglietto da visita: melodie lontanamente country con echi di anni 80 filtrate con intelligenza da suoni nuovi e un senso innovativo della forma canzone, per un artista che coltiva anche uno spiccato senso della lotta alla banalità anche nel testo, e che forse, proprio perché non diventerà un nuovo idolo per giovani acquirenti di dischi, mostrerà quel tasso di qualità che spesso non coincide con le Hit Parade. Altri suoi pezzi che seguiranno nelle radio e nelle seguenti manifestazioni canori, e il titolo del suo album che è tutto un programma quale “Variatio 22”, lo stanno a dimostrare.

Ed ecco dunque i primi della classe, questo artista completo e questa band rivoluzionaria sono in grado di competere anche con i campioni per la palma dei migliori in assoluto del Sanremo n. 49. Difficile non dargli un ex-aequo. Andiamo dunque per ordine alfabetico. Max Gazzé giunge in extremis per quanto riguarda il limite di età (35 primavere) imposto per la categoria, ma il suo esordio sanremese giunge dopo una decennale carriera di bassista turnista in giro per l’Europa, numerose collaborazioni, tra cui la più recente quella con Daniele Silvestri, e un album già pubblicato, che sarà ristampato dopo l’exploit del 2000. Già in "Contro un onda del mare" si avvertivano le pennellate genialoidi di un autore sospeso tra sperimentalismo, ricerca rock con massicci e mai eccessive dose di ironia e parodia stilistica, sulla lezione di una Frank Zappa, o di un Rino Gaetano, ma anche di Elio e le Storie Tese. Avulso dallo star system e per nulla disposto a compromessi artistici Una musica può fare, pezzo brioso e persino orecchiabile colpisce per una scelta stilistica in chiave ludolinguista con giochi di enjembement di marca demenziale. Un testo che fa gridare al capolavoro il cui contenuto si presta sia alla chiave di lettura del puro divertissement, sia a concetti più profondi riconducibili ai poteri terapeutici della canzonetta, anche quella più corriva. "Una musica può fare" è un bersaglio facile anche verso la canzone di consumo, mediato con gli stessi ingredienti, iterazione, melodia ammiccante, arrangiamenti immediati. Il verbo del titolo si lega talvolta in chiave fraseologica con altri verbi messi nel verso seguente: "Una musica può fare / cambiare... dormire... svegliare". Il pezzo giusto per mostrare il suo vulcano di idee finalmente giunto alla sua esplosione, ed è davvero cosa rara provare un gusto nell’ascoltare un pezzo a Sanremo. L’anno dopo Gazzé dimostrerà di saper fare anche altro e anche meglio, e nel frattempo vincerà un ritorno di fiamma del Disco per l’Estate, organizzato da Canale 5, con la conduzione di Paolo Bonolis, e la sua vittoria in coppia con l’altro astro nascente della canzone italiana, Niccolò Fabi con cui canteranno e scriveranno a quattro mani una garbata “Vento d’estate”.

Ultimi ma non ultimi, forse primi, i Quintorigo: provenienza romagnola, diplomi di conservatorio e di scuole di recitazione come curriculum, sono il deus ex machina che salva un rock italiano dato per agonizzante. Cinque musicisti di strumenti ad archi e una voce solista che funge da sassofono umano, è l’esempio vivente di come si possa pronunciare la parola "rock" anche senza toccare chitarre e batteria né infilare una sola spina. Ma non è certo la moda dell’unplugged che spinge i Quintorigo nell’olimpo delle più piacevoli sorprese del panorama musicale italiano. Nella cifra artistica di questa band, capitanata dall’estroso John De Leo, ci sono trent’anni di musica internazionale mediata con una ricerca enciclopedica dei suoni che hanno fatto epoca, dal blues al tango, dal jazz al r&b, riproposti unicamente con gli strumenti che solitamente rimandano alla musica sinfonica, appunto gli archi, archi fatti scivolare, sulle corde in un molteplice gamma di intensità, sul pentagramma che si lega al loro nome, in un ensemble di rara maestria che rimanda all’energia dei maestri del rock più duro (ne fanno testimonianze le cover da loro incise firmate Deep Purple o David Bowie). E i testi? Geniali, iconoclasti ma non nichilisti, fuori da ogni schema, plurilinguisti, supportati dalle avanguardie poetiche contemporanee, nel più fedele segno dei tempi che mutano e che danno un senso di inquietudine del vivere insieme a un vago accenno di maledettismo, più spesso risolto in un’esigenza nell’urlare un anticonformismo agli stereotipi di ogni livello. Rospo, è il loro pezzo sistemato ovviamente all’ultimo posto dalle giurie che certo saranno rimaste choccate, e risollevato soltanto fino all’undicesima posizione dalle attente giurie. L’archetipo dell’anfibio, che si trasforma in principe con un bacio di una principessa, compie il percorso inverso, dal momento che la bellezza ormai assurta a status symbol si specchia in un’ipocrisia massmediologica, specie televisione e moda da cui prendere le distanze fino a preferire l’anonimato di chi bello non è, anzi preferisce non esserlo se deve scendere a simili compromessi e perdere la propria individualità. "Voglio tornare rospo" auspica un ipotetico eroe dell’era mediatica per eccellenza. "Show me your hand", lo dice alla principessa il cui nome è Gloria, Fortuna, Celebrità, cioè mostrami la mano, in modo da restituirti il bacio e tornare nello stagno acquitrinoso ma autentico della riconquista di sé ("Non puoi toccarmi dentro"). E nel mezzo le accuse lancinanti allo star system, pronunciate omettendo articoli predicati preposizioni e avverbi al punto da doverci ragionare un secondo per completare mentalmente il concetto (esempio: "Ipocrisie televisive conati = queste ipocrisie televisive mi provocano conati di vomito"), per la fretta di ridurre ai minimi termini ciò che non vale la pena neanche di tanti fiumi di parole. Questi sono i Quintorigo, musicisti veri e artisti pazzoidi mai tanto lucidi, sistemati nel rigo più alto di un pentagramma dove spesso non si ha né la voce né il know-how per giungervi, a meno di essere davvero davvero capaci.


GRADUATORIA PERSONALE:
1) Aria
2) Lo zaino
3) Guardami negli occhi

NUOVE PROPOSTE
1) Rospo
2) Una musica può fare
3) Ti amo che strano

SHIT SANREMO:
1) Come sei bella
2) C’è che ti amo
3) Al centro del mondo

FRASE DELL'ANNO:
"Sono contento di essere infelice
si alza il sipario ma
non credere
io non so fingere" (da "Rospo", Quintorigo)

PERLE DI SAGGEZZA:
"Voglio vivere così... con tutti i miei sbagli e i miei 'ma sì'...
come se fosse il mio giorno perfetto"
(da "Un giorno perfetto", Gianluca Grignani)

MENZIONE SPECIALE:
"...e mi sento già libero DI ogni complesso"
(da "Come sei bella", Massimo Di Cataldo)

MARIO BONATTI

Continua...