2000: Nozze d'oro con... sentimento, croci e coccarde
di Mario Bonatti


E fu così che Fabio Fazio ebbe il privilegio di condurre l’edizione del cinquantenario di Sanremo. Abituati all’opulenza televisiva che tutto appiattisce, alla vigilia del primo Grande Fratello, festeggiare in pompa magna la più grande manifestazione canora italiana sarebbe risultato forse ridondante, ma proprio per questo doveroso. La rinuncia alla torta celebrativa si rispecchia nella sobrietà di un Fazio, che si veste alla maniera di Sgt. Pepper’s ma dovendolo poi spiegare al pubblico e alla stampa dalla corta memoria, e che dà spazio in modo particolare alla musica e poco ai fronzoli. Troppo scomodo per certa discografia: hai voluto la bicicletta, hai pedalato, ora scendi e fai fare un giro ad altri, che poi siano gli stessi che te l’hanno imprestata poco importa. Nel frattempo, questa "sua" cinquantesima edizione riesce a farsi degna di nota per un buon livello musicale, per una certa eterogeneità di stili, malgrado qualche concessione alle situazioni più corrive. Confermata la formula delle giurie, cambiano invece le polemiche, o almeno cambiano la loro provenienza. Vince una proposta di qualità, e di nuovo le giurie vengono messe alla berlina per aver fatto il bello e il cattivo tempo. Rimane il mistero, anche se il meccanismo che l’anno prima ha dato la vittoria alla Oxa, che era già messa sugli scudi dalla giuria popolare, appare diversamente messo in moto quest’anno per condurre gli Avion Travel dall’undicesimo posto del giovedì al primo posto del sabato sera, scombussolando però solo alcune delle preferenze date al pubblico, mai come quest’anno libero da pregiudizi. E’ facile pensare soprattutto a un plebiscitario consenso dei giurati vip nei confronti di una band che ha dimostrato di saper fare musica, piuttosto che a un gioco delle tre carte. Inoltre questo podio darà suo malgrado delle indicazioni di massima sui podi a venire. Ma tutto rientra nei consueti ranghi quando poi si parla di Nuove Proposte. Non solo i vip non fanno miracoli, ma contribuiscono a premiare una canzone che sembra essere avanzata dall’edizione del 1951, non tanto per impianto musicale, quanto per lentezza e languore, laddove di proposte valide se ne presentano meno dell’anno passato e le stesse fin troppo coraggiose per conquistarsi posti di rilievo. Quindi dov’è il passo in avanti? Ce ne sarebbe più d’uno, ma sarà premura della regia occulta del Festival di farlo sparire con moderazione. A partire dalle polemiche lanciate ad hoc, che prenderanno di mira proprio i vincitori, additati per anni come vincitori immeritevoli, non perché dal passato inesistente alla maniera di Jalisse o Minnetti, ma perché troppo bravi per il numero di copie vendute nella loro carriera. Andiamo per ordine.


BIG
Una comparazione del podio popolare e di quello targato Ariston è d’obbligo. La sola Irene Grandi mette tutti d’accordo occupando dal primo giorno la seconda posizione, e tenendosela stretta come vera e propria consacrazione di rocker al femminile, consacrazione prontamente confermata da una cerchia di ammiratori che saprà seguire il suo non sempre agevole (ma sincero) percorso artistico. Ma gli esperti e presunti tali delle sedi Rai avevano tuttavia dato il primo posto a Gerardina Trovato, e il terzo posto ai Matia Bazar, denotando un orecchio poco profondo. Inoltre il resto della graduatoria era stato tenuto segreto agli spettatori, salvo poi essere diffuso via stampa a mozzichi e bocconi (Morandi quarto poi terzo, Gazzé a mezza altezza poi quarto, gli Avion come detto undicesimi e poi vincenti, i Subsonica puntualmente ultimi e poi portati su per quanto si potesse, percorso inverso per Tozzi, down per D’Alessio, up per Bersani). Come non detto dunque: gli unici a non dovere sapere "per non essere influenzati", sapevano.

La vittoria data alla Piccola Orchestra Avion Travel fa comunque notizia in senso positivo: la ricerca musicale della band casertana, benché più tesa in questo caso verso un bozzettismo folcloristico di maniera rispetto alla più innovativa "Dormi e sogna" del 1998, ha pur sempre un marchio doc e si mostra insolita per gli scenari festivalieri degli ultimi anni, mediando il passato melodico e le sue atmosfere da antiche cartoline con il presente degli arrangiamenti che danno nuova linfa ai tappeti d’archi e al basso continuo che contraddistingue le sezioni iniziali del brano. "Sul mare luccica" è il verso di apertura che in parte si collega con la partecipazione di due anni addietro, quando l’interludio iniziale riprendeva un motivo strumentale che aveva proprio questo titolo e che a sua volta rimanda alla romanza napoletana in ritmo ternario "Santa Lucia"”. Sentimento è il nome di una ipotetica imbarcazione somigliante a un comune peschereccio che si svela, con un lento ritmo felliniano, sul litorale partenopeo che diventa così teatro onirico delle speranze e dei desideri di un popolo che arriva a racchiudere così l’intera umanità che, come Diogene, cerca i valori perduti da un tempo perduto, una volta tanto facendosi pescatrice di sé stessa, e non del solito nutrimento solitamente pescato dal mare geografico, anch’esso poeticamente trasformato in bacino dell’anima ancestrale umana. Un pezzo con alcuni agganci all’orecchio meno allenato ma non per questo di facile presa, interpretato con maestria, indovinati tempi teatrali e una umiltà di fondo da parte del sestetto che riesce a presentarsi senza far pesare la loro estraneità ai generi più dominanti in quel di Sanremo. Certo non può fare scandalo premiare questa canzone dopo aver dato la palma di migliore a canzoni come "Se m’innamoro" o "Ti lascerò". Capofila della polemica conservatrice sarà l’opinionista Dario Salvatori, che fino al 2002, sarà in grado di parlare alla nausea di una "coccarda" di cui la giuria, secondo lui artefice con cognizione di causa della vittoria del gruppo, si sarebbe fregiata per far vedere al grande pubblico che si possono premiare i pezzi di qualità fatti da un gruppo di qualità, caratteristica che a questo punto diventa paradossalmente un vero e proprio difetto, come chi si veste in giacca e cravatta a una festa sfigura al cospetto di una torma di fricchettoni dal maglione liso. A sostegno di questa fantomatica coccarda, avvistata dal Salvatori come certi Ufo, viene impugnato il resoconto delle vendite, come dire: guardate, non vendono neanche, quindi sono élitari, e da una élite premiati. Sicuramente è facile distorcere i contorni di un panorama, usando uno zoom o un grandangolo. In uno dei suoi interventi, Salvatori metterà fumo negli occhi con un esercizio di manipolazione numerica che ha del clamoroso. Infatti indicherà che dopo un mese dal Festival gli Avion Travel occupavano, con una loro raccolta, la diciannovesima posizione delle Hit Parade (quelle generiche di tutti i dischi presenti sul mercato, non quelle sanremesi!) e che quindi era un posizione assai ben lontana sia dal primo posto finale, sia dall’undicesimo delle giurie popolari. Inutile dire che era la prima volta che la band aveva ottenuto un posto tra i primi venti, quando non avevano neanche toccato i primi 60 con i precedenti bellissimi album e che da ora in poi i loro concerti e i loro dischi pur non andando in cima alle Hit non passeranno inosservati. Ma paragonare un primo posto sanremese con un diciannovesimo delle classifiche generali, è come affermare che la notizia di uno studente promosso a scuola con tutti "10" è di importanza trascurabile solo perché su "Reppublica" è pubblicata in una colonna in cronaca, e non in prima pagina come sul giornalino della scuola. A ciascuno le sue coccarde: ad Elisa nel 2001 per fortuna e per comodità non gliene sarà assegnata alcuna. Ma torniamo... alle canzoni cantate.

Detto dei vincitori, ecco quindi Irene Grandi, che sfiora un successo che sarebbe stato altrettanto clamoroso ma non immeritato. La tua ragazza sempre è il punto di partenza del sodalizio con il Blasco. Un po’ come la risciacquatura dei panni di manzoniana memoria, la cantautrice fiorentina, che nell’Arno ci è nata, si reca dunque alla corte del rocker per eccellenza e mostra progressi maiuscoli. Il pezzo sanremese presenta un modello di "bambina innamorata" aggiornata ai tempi, senza troppe stucchevolezze, né ostentando una ormai acquisita autonomia in scelte sentimentali, cosa a cui i nostri costumi sono ormai abituati. "Ma lasciati andare", come se ora fossero i ragazzi quelli timidi, ma una certa parità è garantita. E il pezzo è gradevolissimo grazie a un riff di primordine e una indovinatissima sezione centrale che lega strofa e ritornello.

Il terzo posto riuscirà a costituire da quest’anno un’occasione propizia per dare una sorta di premio alla critica o alla carriera. Gianni Morandi si rimette in discussione, e del resto perché non farlo? Innamorato è un pezzo del Ramazzotti che a Sanremo certo non mette più piede per non rovinarsi la piazza ma qualche pezzo qua e là lo manda volentieri. Questo calza come dal sarto sulla voce del Gianni nazionale, che senza dover dimostrare nulla, fa la sua dignitosa parte, mettendo d’accordo ogni sorta di giurie, con una specie di monumento che sta lì e guai a chi lo tocca o ci si siede daccanto o peggio ancora ci fa una scritta col pennarello. Più interessante la strofa rispetto al ritornello, e per fortuna più incisiva l’interpretazione viscerale del nostro rispetto a un arrangiamento un po’ pigro. Ma un terzo posto a Morandi non si nega, e per lui è una vittoria a tutti gli effetti, con l’espressione compiaciuta di un nonno acclamato da un’orda di liceali col piercing.

Max Gazzé, che nonno non è ma papà sì, quasi quasi ci credeva a fregiarsi della medaglia di bronzo. Il timido ubriaco si merita un quarto posto comunque notevole e sorprendente, mentre inizia a non sorprendere più il suo genio artistico che fa di questo pezzo e del suo esecutore uno dei pochi passi in avanti del rock italico. Con la collaborazione di suo fratello Francesco, viene trasposta in musica una poesia di questi con pochissime varianti legate a esigenze di metrica. In uno stile poetico a chiasmo con due trinari all’estremità e due endecasillabi al centro, col risultato corrispondente a quattro settenari, viene descritta, tra ironia e sentimento, una vicenda coniugale ai limiti dell’assurdo tra un marito viscido ed asessuato, la sua sposa colpita forse da un matrimonio che lei in qualche modo subisce, vicenda raccontata dal suo "compagno non voluto, temuto" che assiste amareggiato a un evento che lui non accetta, benché destinato a urlare al vento, forse perché non si può dare credito a un timido ubriaco o a un ubriaco timido (non si dice quale dei due termini sia aggettivo e quale sostantivo, quindi vanno bene entrambe le possibilità...). "Potranno mai le mie parole esserti da rosa?" è la frase che esplode su un tripudio rock che attende il momento topico dopo una strofa ben sorretta da effetti sonori e dalla caratteristica voce nasale di Gazzé che lascia parlare le parole, restando neutrale senza timbri particolari.

Ed anche il quinto posto strappa uno "chapeau" al debuttante sanremese Samuele Bersani, premiato dalla Critica e piazzato al secondo posto dalla giuria di qualità. Replay è un pezzo avanti di anni, antisanremese per eccellenza. Sfumature jazz e l’inconfondibile e personalissimo stile del bolognese rappresentano una vera e propria boccata d’ossigeno e forse il rapporto qualità-posizione è uno dei più azzeccati nella storia del Festival.

Sesta si classifica Gerardina Trovato che non trova dunque terreno fertile nell’acclamazione da primo ascolto che il pubblico le ha riservato durante la prima serata (forse favorita dalla regola non scritta che chi si esibisce per ultimo è più favorito). La sua Gechi e vampiri ha di buono un ritmo molto piacevole che si lascia cantare, sempre sostenuta dalla semplice solarità dell’autrice catanese. Di contro si potrebbe eccepire un certo affrancamento alla melodia più facile e una ripetizione di alcune sue tematiche autobiografiche a lei care di cui già ci aveva messo a parte, senza evitare così l’accostamento e la scomoda parentela col pezzo del suo esordio di sette anni prima "Ma non ho più la mia città". Il pubblico accetta di buon grado questa canzone della ragazza che si fa largo inseguendo un sogno malgrado i mostri che le hanno più volte sbarrato la strada. Non è il suo pezzo migliore, e fatalmente la mancata vittoria la farà sparire dalle scene. Ma in fondo la giuria popolare non era stata istituita per dare quel sigillo di qualità alla graduatoria che per cinquant’anni era stato impunemente affidato alle anonime giurie fino a conferirlo all’impalpabile universo degli scommettitori del Totip?

Il settimo posto trova la consacrazione di un altro personaggio al femminile, finora poco gratificato nelle sue performance sanremesi. Carmen Consoli, altra catanese, cita la sua stessa città d’infanzia in questa ballata rock dedicata alla madre, al percorso del suo rapporto con lei, revisionati attraverso foto della sua infanzia (con una bambola tra le mani) e della sua adolescenza (nel cuore degli anni 60, vestita alla moda dei beatnik dell’epoca). Sono più ammissioni di colpa ad animare questo desiderio di colpa di una figlia che confessa "avrei voluto parlare di te... chiederti almeno il perché...", ma che ha preferito fare di testa sua salvo poi rispecchiarsi in quelle istantanee In bianco e nero. C’è anche una certa volontà di autodeterminare il proprio arbitrio, scandito con il suo riff a ritmo sostenuto ricco di venature blues. Carmen sta ormai diventando un’artista completa, al punto che il riscontro del pubblico sempre più numeroso renderà del tutto secondario questo o quel piazzamento nella classifica dei campioni.

I Matia Bazar sono anch’essi vessati dalla giuria del sabato, scendendo dal terzo all’ottavo posto con la canzone più sincera della triade che presenteranno in questi primi anni duemila. Brivido caldo è un pezzo d’atmosfera, dedicato ad Aldo Stellita, fondatore della trentennale band, scomparso prematuramente pochi mesi prima, una sorta di bolero sorretto da un testo languido ma capace di non trascinarsi sulla solita prammatica banalità da paroliere, e molto bene interpretato da Silvia Mezzanotte. Anzi, il ritorno di Piero Cassano, che dalla band si allontanò nel 1981 (partecipazione da solista a Sanremo) a causa del nuovo corso con la Ruggiero, più che una sensazione di riciclaggio, assicura una continuità nel tempo di una formazione che pur modificando la propria cifra artistica (non sempre fonte di buona musica) ha saputo comunque mettersi in discussione, proponendo una musica che sapesse conciliare i gusti del pubblico, fiutando bene l’aria dei suoni adatti, e la voglia di rinnovarsi. Ironia della sorte, si sono trovati con il loro pezzo migliore del dopo Antonella proprio in un’edizione dalla buona qualità, e arriveranno a vincere senza meritarlo la men che mediocre edizione del 2002.

Prima dei delusi, c’è spazio per le due situazioni di qualità più caratterizzanti di queste nozze d’oro. Alice torna dopo la vittoria dell’ormai lontano 1981. Il giorno dell’indipendenza non sorprende lo zoccolo duro dei suoi ammiratori, forse nati proprio in quel febbraio di diciannove anni prima: l’artista forlivese padroneggia da par suo su una melodia molto sobria ma strutturalmente impeccabile, che riassume il suo universo e la stretta cerchia di collaboratori che hanno contribuito ad abitarlo. La voce non sente lo scorrere del tempo, e il ritorno è uno dei più indovinati colpi messi a segno dalla gestione Fazio, capace di restituire un degno piedistallo a chi aveva abbandonato le classifiche di vendita ma non il pianoforte di casa sua né le sale d’incisione.

L’altra proposta innovativa è nella tradizione sanremese di dare un’occhiata alle nuove tendenze artistiche, tendenza non sempre scevra da equivoci. Del resto, invitare un artista, ma soprattutto un gruppo, che solitamente fa musica lontana dalla tradizione melodica e leggera porta sempre quel rischio di volerla assoggettare alle leggi del pezzo immediato utile per farsi finalmente quella pubblicità di cui non godevano i circuiti massmediatici nei quali questi artisti "altri" si sono formati; un rischio al quale deve rispondere l’artista stesso, che a volte sceglie la qualità della loro coerenza, a volte la quantità di qualche nuovo fan, sospeso tra voglia di farsi conoscere e abbandono al compromesso commerciale. Fermo restando che a volte Parigi vale bene una messa, il pezzo dei Subsonica Tutti i miei sbagli, pur non essendo uno... sbaglio artistico ma neanche il fiore all’occhiello del loro repertorio, risulta convincente e per niente estraneo al loro mondo musicale, condito com’è da un ricorso all’elettronica frutto di anni e anni di sperimentazioni (non solo di questo gruppo ma dell’intero panorama avanguardista), dove neanche i violini sanremesi stonano (in tutti i sensi) come neanche la giacca e cravatta che il gruppo sfoggia nella serata finale (se la mettevano anche i capelloni illo tempore). L’undicesima posizione rimedia in parte l’ultimo posto che la giuria RAI aveva puntualmente assegnato loro, ma il pezzo resta tuttavia un esempio valido di una corrente artistica che ormai stava già camminando nei percorsi antisanremesi da tempo e che semmai darà a Sanremo qualche nota lieta da quest’anno in poi, con un gruppo diverso ogni anno. Il progetto Subsonica si inserisce nel solco della via alternativa del rock traversale, attento a non smarrirsi tra sincretismo e citazionismo ma fotografando con occhio vigile le nuove pulsioni di fine secolo e filtrarle attraverso suoni nuovi ma non per forza di rottura o virtuosistici per il gusto di stupire. In fondo anche il destinatario di questo pezzo non si allontana da un’onnipresente idea di ragazza ideale, ma nello scarno testo ci sono molte delle frustrazioni più diffuse dall’uomo contemporaneo.

In mezzo a queste due proposte, nella classifica finale si intrufola Gigi D’Alessio, su cui ci sarebbe ben poco da dire se non che quest’anno è l’anno della sua affermazione aldilà del territorio campano e agropontino. La sua stessa partecipazione ne è una dimostrazione: Non dirgli mai... cosa dirne? Certo la tradizione melodica napoletana (fiore all’occhiello di un Made in Italy intramontabile) meriterebbe qualche più degno erede, specie se l’erede lascia a casa proprio il tratto più distintivo della tradizione, ovverossia il dialetto, riuscendo a farlo sopravvivere solo in due o tre versi, come dare le briciole a un invitato indesiderato. Pezzo furbo, per un cantante di cui Sanremo aveva comunque bisogno per non perdere di vista il suo pubblico dal più elevato tasso di acne giovanile.

Ecco dunque le ultime cinque posizioni che stanno a indicare le delusioni registrate da entrambe le giurie e forse anche dal pubblico, alcune piuttosto clamorose leggendo i nomi degli interpreti. Certamente, Ivana Spagna non aveva mai destato un’impressione così favorevole a certi canoni di qualità: stavolta con un pezzo che non riesce però a imporsi come il più brutto tra i suoi precedenti sanremesi, riesce anche a stare lontana dalle posizioni più alte. Con il tuo nome non merita certo la sufficienza, si gonfia nel refrain come dopo il lavoro di un chirurgo estetico per mettere sul piedistallo i soliti vocalizzi della dolce Ivana, che dichiarerà di avere fatto sforzi sovrumani per eludere qualsiasi accusa di plagio. A questa involontaria ammissione di colpe passate non corrisponde certo una Ivana Spagna che non assomigli sempre a sé stessa. Forse un sottofondo meno languido non sarebbe nuociuto. Pazienza, ai miracoli non è certo attrezzata, trasformismi a parte.

Mezzo passo falso per Mietta con Fare l’amore: reduce da proposte discografiche molto più innovative, questo pezzo scritto da un Mango assente al Festival ma da qualche anno assente anche tra i primi della classe (vena esaurita?), questo pezzo dunque suggerisce che la bella Daniela era in grado di osare qualcosa in più invece di un pezzo facile facile con cui lanciare sul mercato l’inevitabile greatest hits.

Sul pavimento di cera lucidato per il cinquantenario vi scivola anche Mariella Nava, forse perché accompagnata da un altro habitué dell’Ariston che non le ricorda di mettere le pattine. Fuor di metafora il sodalizio tra Mariella Nava e Amedeo Minghi, ben lungi dal voler riproporre i fasti del duo con la Mietta di cui sopra, è comunque un progetto altamente ambizioso, ancorché sorretto da una semplice sinergia promozionale. Non esiste infatti un album a quattro mani, ma solo una canzone dal titolo sospetto dato l’anno 2000: Futuro come te, è una ballad con retrogusto giovanilistico che narra di due innamorati che si scoprono uguali (forse troppo per i segni dei tempi) e desiderosi di camminare insieme verso il domani. Sia l’evanescente testo, benché salvato da qualche felice simbologia in stile Mariella, sia la partitura, troppo sospesa in un’aura di idealismo sfrenato, fanno sì che questa canzone appaia più... "minghiata" che "navata", con l’aggravante di un ritorno a un crepuscolarismo fuori tempo massimo dell’autore romano che si inventa un parlato che sciorina le cose in comune (della serie: "ho (tutto) come te", naturalmente alla fine si cita il titolo) con un effetto più imbarazzante che foriero di euristiche inferenze, come tirare fuori un coniglio dal cilindro, che non è da tutti, ma è pur sempre un vecchio trucco da mago. Lo stesso ricorso all’inglese "say you love me" sembra partorito dall’esterofilia figlia dei network radiofonici ai quali Minghi sembra ammiccare e non da credibili scelte poetiche, forse neanche da espresse esigenze metriche. Non a caso Mariella, che sa correre anche da sola, farà marcia indietro pubblicando uno dei suoi album più personali, dove questo motivo sanremese comparirà come una specie di bonus track, avulso dai restanti nove brani.

E per legge di contrappasso, relegata nelle ultime due posizioni è la scuderia fiorentina targata Bigazzi. Masini e Tozzi arrivano con propositi di rinascita e raccolgono mosche. Più sincero Marco Masini con Raccontami di te che almeno non cade nella tentazione di stupire, non fa una brutta figura con questo pezzo intimista che non va alla ricerca di casi umani, dosa la rabbia del vivere con parole di più immediato effetto poetico e dà risalto alla sua inconfondibile voce a più ottave, fino a cancellare nei quattro minuti dell’esecuzione, la sua nomea di cantante tragico che gli avevano ingenerosamente appiccicato e che gli impedirà di trovare nuovi contratti fino a pensare seriamente di uscire dalla scena discografica sbattendo la porta, supportata solo dai suoi ammiratori più irriducibili. Non è certo un pezzo da bocciare, sebbene non sia così nuovo nel suo genere di un blues jazzato con scampoli di dosata malinconia.

Butta male invece a Umberto Tozzi, che sceglie di rilanciare anche lui la sua parte più romantica con Un’altra vita, provocando un effetto di autorevival dei suoi tempi migliori, che diventa così un autogol provocato da un artista da cui non ci si aspettava né una autocelebrazione né una così scarsa attenzione al modo di proporsi, spesso ruffiano ma comunque mai banale, come invece stavolta, con un finale gorgheggiato che ricorda troppo vicino Grignani, il che non garantisce certo gratificazioni a lunga conservazione.


NUOVE PROPOSTE
Troppa grazia era proporre un’altra infornata di nuove proposte tutte buone e giuste. Le diciotto del cinquantennio si caratterizzano comunque per la loro eterogeneità, forse anche troppo, dal momento che ascoltare è sotto certi versi un riepilogare i generi in voga al momento, al punto che ciascuna di queste avrebbe potuto avere un padrino in uno dei cantanti che occupavano le charts italiane e internazionali. Quindi la canzone vincente è di una bruttezza sconcertante. Troppo desiderosi di prendere la distanze dal pausinismo che in realtà non è morto ma solo svenuto, Jenny B., vocalist mulatta dalla voce blues, sembra calzare a pennello con questa voglia di qualcosa di nuovamente rifatto: Semplice sai non ha un testo, ma ricorda le lettere minatorie dell’anonima sequestri che ritagliavano i caratteri dai giornali. Non ha una musica, desiderosa solo di gonfiare a più non posso gli effetti orchestrali dove la cantante catanese sfoggia tutto il suo tronfio gorgheggio. Ma non ha neanche un arrangiamento, nel suo compiaciuto autocelebrarsi con il dispiego dei soliti violini. Forse erano troppo impegnati sui Big da osservare con oculatezza cosa bolliva nella pentola delle nuove leve?

Peraltro lo stesso secondo posto per quanto col marchio "made in Giovane", ammicca qua e là alle nuove tendenze che mischiano rap hiphop e il risultato di Tiromancino in coppia con Riccardo Sinigallia si accontenta di giostrare un giradischi da disk jockey (con un retrogusto nostalgico troppo in anticipo coi tempi). Uno stile che farà anche da paradigma del nuovo parlare giovane, non tanto lucido, poco profondo, gonfio di ideali e di filosofie in scarpe da ginnastica: Strade comode e soleggiate che non portano tanto lontano. Ma resta purtuttavia un pezzo che guarda avanti. Ma chi non riesce a guardare almeno al presente si rifugia nel passato, e in un anno così simbolico come il 2000 è davvero un’occasione perduta e non sono in pochi a farlo.

Il terzo posto ripropone (a questo punto senza ritegno) la solita nuova scoperta di Claudio Mattone, che almeno alza il tiro delle capacità canore passando da Syria a una Luna dalle doti bene espresse nelle sue potenzialità, e vanificate dalla nuova creatura bicefala, altrimenti detta canzone. Cronaca prende un orrido spunto in stile "canzone del dolore" da un episodio di un bambino di Roma che mesi addietro fu ucciso sotto violenza e pretende di volerne descrivere il senso di abbandono e di tristezza dell’animo innocente alle prese col suo perfido carnefice, con una pletora di lacrime di una stucchevolezza disarmante, il cui concetto ricorrente resta quello che "Dio non era lì": vai a vedere che in questo clima di degrado e di morte il cui stato d’animo si poteva cogliere in molteplici aspetti, bisogna prendersela col creatore perché non è intervenuto a fulminare il peccatore. Viene bene il termine coniato di Luttazzi "disgustorama".

La canzone che merita la palma di migliore si deve accontentare della quarta piazza: Roberta Migliotti alias Andrea Mirò, benedetta dal sodalizio non solo artistico con Enrico Ruggeri, recide ogni legame con le sue partecipazioni del 1987 e 1988 ed è una rocker in grande spolvero con La canzone del perdono che non si limita a evidenziare il marchio di Mister Falco & Gabbiano, ma propone anche una voce squillante e una personalità artistica di rilievo: la carriera musicale di Andrea comincerà ora.

Percorrendo la classifica degli anni verdi, troviamo tuttavia molte delusioni e molte incompiute. Tra i bicchieri mezzo pieni c’è il frate rock Padre Alfonso Maria Parente, che, forse anche contro il parere dei suoi padri spirituali, prende il treno da San Giovanni Rotondo per Sanremo con un rock impegnato di contenuto sociale, forse un po’ datato dal lato strettamente musicale, e forse anche per un certo militantismo da Azione Cattolica. Che giorno sarà parla di emarginazione e di povertà e di carenze d’amore e offre per questi reietti una domanda che è invita la speranza ma lascia il dubbio non risolto, occasione persa per chi, professandosi cristiano, avrebbe potuto testimoniare una certezza e non aggiungere un ennesimo interrogativo. Mancando anche un progetto musicale convincente, rimane solo il fattore sorpresa, con l’aggiunta di un miniscandalo che ha fatto parlare di Padre Parente durante le edizioni del Festival: il frate avrebbe truccato la sua data di nascita per rientrare nei 35 anni previsti per la categoria. Sospetti infondati per il frate che però qualche anno dopo sarà coinvolto in una presunta truffa legata alla vendita di oggetti di culto di San Pio da Petrelcina. Per lui c’è un sesto posto che supera il gruppo premiato dalla stampa, i Lythium.

Diplomati al conservatorio e residenti tutti in Sanremo, i Lythium colpiscono per un languido fandango dedicato a un genitore che non c’è più di nome Noel. Nonostante una lodevole attenzione ai motivi poetici e melodici, non si può parlare di un nuovo gruppo di cui seguirne le evoluzioni. Sulla stessa velleitaria falsariga si collocano molti altri partecipanti, da una Marjorie Biondo che odia Le margherite ma ama tantissimo Alanis Morissette, le Erredieffe che cantano con fare conturbante una Ognuno per sé che è un elogio allo stereotipo delle massime esistenziali, ma soprattutto ammiccano fin troppo alle All Saints, senza per questo fare più del quintetto che a sua volta scaturiva da una risposta più blues alle inflazionate Spice Girls.

E così anche Moltheni, all’anagrafe Umberto Giardino, anconetano emigrato in Sicilia presso la casa di Carmen Consoli, e del compianto produttore Francesco Virlinzi (che morì l’anno seguente). Nutriente è già un titolo incoraggiante, la voce è sgraziata e particolare senza per questo poterla definire una Consoli con testosterone. Moltheni si smarrisce in alcune idee da pop sperimentale che ne fa un artista innovativo ma involontariamente di nicchia, nicchia non scavata del tutto.

Stessa sorte per Enrico Sognato che aveva avuto una certa attenzione da parte delle radio due anni prima con una bizzarra "X, mi hai fatto perdere la testa", ma confrontandola con questa E io ci penso ancora, oltre al titolo che si ritorce contro di sé, rileva la difficoltà di inserire la propria individualità artistica e le proprie idee nel solco di un genere (il rock italiano) che ne costituisca nel contempo una tappa evolutiva e un anello di congiunzione.

Con qualche credenziale in più, Davide De Marinis presenta ahilui il pezzo sbagliato e, favorito alla vittoria, non centra più del quinto posto. Chiedi quello che vuoi, troppo indulgente verso un arrangiamento nato su un floppy disk, non regge il confronto col suo successo che l’aveva reso noto l’estate precedente: che forse era davvero "Troppo bella" rispetto a questa.

Nel codazzo di posizioni dalla decima in giù sfila il primo scaglione di personaggi di cui si può fare tranquillamente a meno, di cui però non si saprà fare a meno al punto che saranno la regola delle edizioni avvenire. Da un Claudio Fiori, vate in blue jeans, che dice Fai la tua vita a Fabrizio Moro che mette solo in mostra sé stesso ma non le sue scelte artistiche che non si sanno quanto siano sincere in questa Un giorno senza fine, fino a un gruppo che porta l’ennesimo acronimo B.A.U. e colpisce in negativo per la sua abilità a nascondere con il motivo Ogni ora il loro indirizzo rock musicale, limitandosi a un ritornello sguaiato, in un insieme che produce qualcosa prossimo allo zero artistico.

Uno spensierato Joe Barbieri canta Non ci piove sotto la supervisione di un Pino Daniele che non è più il fine musicista di dieci anni prima e sparisce da dove è riapparso, cioè da un anonimo passato che lo aveva visto anche tra le proposte del 1990. La figura più barbina la fa Laura Falcinelli che decanta le lodi di un Uomo davvero con un misto di grinta al femminile, spregiudicatezza, ironia di sedicente seduzione, ritmica andante con moto... cicletta, arrivando in ritardo a un party in cui non era neanche invitata, quello della rocker in gonnella che preferisce mostrare la gonnella trascurando la chitarra.

Ed ecco che, nella selva di suoni già sentiti, compaiono due personaggi, che se non riusciranno a imporsi, daranno comunque prova di talento. Solo per l’interessamento della giuria di qualità che dà qualche bel voto in più, La croce non arriverà a un ultimo posto che le sarebbe calzato a pennello proprio per la sua abilità di ergersi una spanna sugli altri. La maglia nera se la aggiudica invece il veneto Andrea Mazzacavallo, con uno dei pezzi più incompresi della storia sanremese. Evitando ogni richiamo a qualche effetto di facile presa, e restando fedele a un suo credo stilistico, questo giovane cantautore che dimostra di possedere ottimi cd per il suo stereo, racconta con la tecnica del frammentismo e del discorso diretto, di alcuni avventori che transitano dalle parti di un autogrill su una autostrada del suo Nord Est: un guidatore di TIR unisce il suo destino a quello di un giovane tornitore e di una giovane impiegata, e lo scontro dei loro rispettivi mezzi di locomozione, a causa di un colpo di sonno di uno di loro (di chi non si sa) che provoca un incidente mortale che li coinvolge tutti e tre. La parola "colpo", ripetuta nelle note più elevate, è la chiave che racconta con assoluta capacità di sintesi sia la causa (la sonnolenza) che il tragico effetto (il tamponamento) dell’episodio, al quale i tre personaggi, affaticati dal vivere, sembravano predestinati, poco importa se come vittime o se anche come responsabili.

Discorso a parte merita Alessio Bonomo, una scoperta dell’Avion Travel Fausto Mesolella, che nel pezzo (non sul palco) suona la strepitosa chitarra distorta che percorre il brano dall’insolita durata di due minuti e mezzo, pezzo che fu inviato come l’unico fino a quel punto completato da questo artista alle prese con la sua opera prima e ciononostante accolto senza indugi da Fazio, che lo introduce premettendo "Ascoltiamo con attenzione...". Il particolare curioso che riguarda "La croce" è il fatto di essere l’ultima canzone in ordine cronologico a presentarsi al primo ascolto in questa cinquantesima edizione, e che dunque chiude idealmente mezzo secolo di canzoni, il cui ideale epilogo in chiave futuribile, lontano e di molto da quel "Sorrentinella" del Duo Fasano che aveva aperto la primissima serata del 1951, non poteva trovare un esempio più calzante che ne mettesse in risalto il tempo trascorso dei dieci lustri e l’acqua passata sotto i ponti della canzone italiana, laddove molte altre delle canzoni in gara non avrebbero potuto certo avere elementi di rottura. Infatti ci troviamo di fronte a un pezzo parlato, recitato a malapena dove si rinnova la simbologia cristologica della croce, ma non si dimentica la sua natura meramente lignea. Pezzo che è come un pugno allo stomaco, troppo breve da assimilare, ma nel complesso geniale, grazie appunto a quella chitarra ostinata che propone un unico riff e un assolo che fa eco a Hendrix, e alla voce sopra le righe di un Bonomo che fa la parte di un giullare del ventunesimo secolo, interrompendo la canzone prima dei tre minuti, come chi ha già detto abbastanza, e non vuole ripetersi, e chi vuol capire capisca, senza neanche la voglia di voler dimostrare, sul palco della Canzone Italiana, se sia intonato o no.


GRADUATORIA PERSONALE:
1) Il timido ubriaco
2) Replay
3) Tutti i miei sbagli

NUOVE PROPOSTE
1) La canzone del perdono
2) La croce
3) Nord-Est

SHIT SANREMO:
1) Uomo davvero
2) Semplice sai
3) Cronaca
4) Non dirgli mai
5) Futuro come te

FRASE DELL'ANNO:
"E ognuno ha la sua croce
ma certe croci vanno in fiamme
ti divorano le spalle
e ti spezzano le gambe
e ognuno è un falegname
e costruisce nuove croci"
(da "La Croce", Alessio Bonomo)

PERLE DI SAGGEZZA:
"In una notte di lucciole / io sarei qui vicina a te /
come una stella nel cielo io / sono al buio ma ti troverei / semplice
" (da "Semplice sai", Jenny B)

MARIO BONATTI

Continua...