Settimana 9 Giugno 1979
( da Musica & Dischi )

# TITOLO INTERPRETE Quotazione
1Il carrozzone Renato Zero € 13
2Knock on wood Amii Stewart € 10
3Tragedy Bee Gees € 10
4Da ya think I'm sexy Rod Stewart € 10
5The visitors Gino Soccio € 10
6Hot stuff Donna Summer € 10
7Born to be alive Patrick Hernandez € 10
8Pensami Julio Iglesias € 10
9Can you feel the forceReal Thing € 10
10Capitan Harlock Banda dei Bucanieri€ 12

Classifica 33 giri

# TITOLO INTERPRETE Quotazione
1Erozero Renato Zero € 25
2Lucio Dalla Lucio Dalla € 15
3Spirits Having Flown Bee Gees € 15
4Blondes Have More FunRod Stewart € 15
5Da Manuela a Pensami Julio Iglesias€ 15
 

Se si guardando le liste dei candidati per le elezioni del momento sembra di leggere una locandina di qualche spettacolo, per quanti personaggi famosi hanno tentato la carta del politicante. Si sa, non è cosa nuova; è una pratica già in atto dal 1970 che questo o quel cantante (o attore) tentino di farsi eleggere dalla gente in nome del loro stesso nome e in aggiunta, sicuramente, degli “alti valori morali” che vengono professati. Tutti, sembra abbiano scoperto di possedere una spiccata vocazione politica. La DC schiera in campo un nome che forse più roboante non si può, ossia Alberto Sordi, grande amico del “divo Giulio”, il PSDI di Longo Antonella Steni e Nicola Rossi Lemeni, famoso basso. Il PSI sbandiera personaggi quali Ottavia Piccolo, Pino Caruso e Claudio Villa che è già, o quasi, al suo decimo cambiamento di bandiera. Il Partito Radicale, oltre al suo showman ufficiale Marco Pannella, annovera Giorgio Albertazzi, Maria Monti, Ricky Gianco. Il PRI Paola Borboni e Renato Pozzetto. Il PCI i soliti noti, ossia Carla Gravina, Ettore Scola, Luigi Squarzina e una stagionata Pupella Maggio. C’era da aspettarsi una valanga di voti per questi nomi famosi e invece, stranamente, gli italiani che di solito abboccano a tutto non si sono fatti intimidire hanno preferito i soliti collaudati personaggi della politica. L’unica che si è classificata seconda tra i non eletti è stata la Gravina. Per tutti gli altri c’è stata solo la soddisfazione di aver contribuito a portare qualche voto in più al partito che rappresentavano. Certo che se oggi un personaggio del calibro di Sordi potesse partecipare ad una tornata elettorale prenderebbe una valanga di voti, data la carenza di politici veri che affligge oggi l’Italia. Ma nel 1979 il richiamo più forte erano i vari Berlinguer, Almirante, Andreotti e compagnia. Come dicono a Milano, ofelè fa il to mestè. Tanto per la cronaca: si sa che ad ogni elezione gli elettori fanno la conoscenza con partiti approntati per la bisogna, nati dal nulla e finiti nel dimenticatoio dopo l’elezione. Questa volta tocca ai Cavalieri Del Nulla che hanno come simbolo una specie di maschera che ride (ma che non dovrebbero essere alla prima apparizione). Ci invitano a votare anche per il Partito Italiano dei Disoccupati e per un omino con le gambe aperte, di quelli che sembrano presi in prestito dalle insegne delle toilette per signori: il nome del partito che c’è dietro si chiama Valorizzazione Dell’Individuo. Se voleste votarlo, assicuratevi che non sia già “occupato”.
Sempre per la cronaca, a vincere è la DC col 38,3% in leggero calo rispetto alle elezioni del 1976 (38,7). Secondo il PCI, in forte calo (30,4 rispetto al 34,4 del 1976). Avanza il PSI di Craxi, anche se di poco (il 9,8 rispetto al 9,6 della volta precedente. Chi avanza in maniera massiccia sono invece i Radicali di Pannella che arrivano al 3,4 contro l’ 1,1 della tornata precedente.

Bee Gees

Rieccoli, sempre lì in cima alla vetta del successo, i fratelli Maurice, Robin e Barry Gibb, al secolo i Bee Gees. Sono trascorsi quasi tre anni dall’ultimo album da studio, c’è stato il successo galattico de LA FEBBRE DEL SABATO SERA e, seppur marginalmente, di GREASE , intervallati dal mezzo fiasco di SGT.PEPPER e di un disco dal vivo. Finalmente escono con un nuovo disco il quale, naturalmente, non impiegherà che una settimana dall’uscita nei negozi per insediarsi prima nelle zone alte della classifica e poi al primo posto assoluto. E questo non riguarda solo il 33 giri, dal titolo SPIRIT HAVING FLOWN, ma anche i primi due singoli tratti dal nuovo lavoro, ossia TOO MUCH HEAVEN e TRAGEDY, la canzone che nonostante l’arrivo di nuovi ospiti nelle classifiche internazionali e italiane, non accenna assolutamente ad uscire dalla Top Ten, con l’intenzione di stazionarci ancora per molto. I Bee Gees hanno due diversi tipi di pubblico: quello di coloro che conoscono il gruppo dal periodo 1977/78 e quello che lo conosce sin dagli esordi in campo internazionale, cioè dal 1967, quando si impose all’attenzione dei media italiani con una serie di successi di eccellente livello come MASSACHUSETTS, NEW YORK MINING DISASTER 1941 e WORLD. Poi ci fu lo scioglimento dopo IOIO del 1970 e la rinascita con un nuovo stile musicale, quello delle ballate eleganti e sofisticate dal forte sapore internazionale, di un pop eccellente e di grande successo: e siamo al periodo di HOW CAN YOU MEND A BROKEN HEART, di MY WORLD, e di RUN TO ME. Canzoni che non hanno assolutamente bisogno di presentazioni. Nel 1974 sembrava avessero perso la vena così felice che li ha sempre distinti e la voglia di cantare e comporre comincia a venir meno. Non sanno quale tipo di musica proporre, si trovano spiazzati in un panorama che è in bilico tra il progressive della seconda generazione e la musica da discoteca. Scelgono quest’ultima e lanciano pezzi come JIVE TALKIN’ e YOU SHOULD BE DANCING che avrebbero potuto ben figurare in un album degli Earth Wind & Fire o degli B.T.Express. Invece è farina del loro sacco, di queste tre fenici australiane piene di risorse, di stile e di vita (come e più dei gatti). Quando ormai li davano per spacciati o pronti per orbitare nel pianeta Las Vegas (ossia il cimitero degli elefanti per artisti importantissimi ma che hanno difficoltà a proporsi sul mercato con materiale nuovo) loro che cosa fanno? Lanciano quei due pezzi che in men che non si dica entrano nelle classifiche mondiali dei dischi più venduti, delle air play radiofoniche, nelle speciali graduatorie dei disc jockey. Insomma, è di nuovo la Bee Gees mania, come e più di dieci-undici anni fà. Il loro tour viene registrato per intero ed uno dei concerti viene trasferito su master, studiato e missato alla perfezione in Francia, al castello d’Herouville. Ne uscirà HERE AT LAST... BEE GEES LIVE che contrariamente a tutte le vecchie illazioni, che li definivano come pessimi showmen, Barry e fratelli si svelano non solo efficaci sotto il profilo tecnico ma veri e propri enterteiner, maturi per ogni pubblico, specialmente per quello smaliziato americano. L’album è una carrelata di tutta la produzione del gruppo, tra guizzi ritmici e sospiri melodici, e propone sia pure con malcelata modestia il monumento a loro medesimi. Ma il meglio deve ancora arrivare. E arriva nel 1977: inutile star qui a raccontare quel che ha significato un film e una colonna sonora come LA FEBBRE DEL SABATO SERA perché all’argomento abbiamo anche dedicato uno scritto (sempre disponibile nell’archivio degli articoli).
Poi il 1979, quest’anno. Altro enorme bagno di fama e di dollari (non australiani!) per i tre fratelli Gibb. Un disco che avrebbe dovuto essere meno “disco” (inteso come genere) e più impostato verso il soul ma da un indagine di mercato si viene a sapere che il pubblico americano vuole i Bee Gees degli ultimi due anni e quando il pubblico vuole qualcosa, che fai? Non l’accontenti? E riecco qui Maurice, Robin e Barry con i loro falsetti, la perfetta sovrapposizione delle voci, i fiati e i giri di basso così cari al gruppo e al genere “disco” in generale (quello di un certo livello, si intende). La cosa che potrebbe assolutamente apparire strana è che il disco venga pubblicato prima in Italia che in Usa. Una ragione c’è: il disco era già pronto da quattro mesi ma i precedenti album non accennavano ad abdicare nelle charts statunitensi e allora, per non inflazionare il mercato ormai saturo, si è pensato di far tirare il collo ai loro fan (ma non solo a loro). Questo disco è anche il primo della loro produzione, se si esclude SATURDAY NIGHT FEVER, ad essere preso sul serio dalle maggiori radio statunitensi, che si rivolgevano ad un pubblico di colore, ed il loro album più venduto che non fosse una colonna sonora: vende qualcosa come 35 milioni di copie. Il disco viene lanciato insieme a TOO MUCH HEAVEN, un bel pezzo, melodico e di ampio respiro che francamente non fa in tempo ad uscire che arriva subito alla posizione numero uno della classifica. Troppo perfetto e troppo architettato alla maniera di un megahit per fallire la prova. Dopo un mese e mezzo viene lanciato il secondo singolo mentre il primo è ancora in classifica (c’è chi lo da al secondo posto, chi al terzo e chi addirittura al primo! Stiamo parlando di un pezzo uscito a marzo). Si chiama TRAGEDY ed è un brano molto ritmato, ad effetto, articolato in maniera inconsueta e dai toni “epici”, grande dispiego di strumentazione ed un arrangiamento efficacissimo: anche qui, siamo di fronte ad un capolavoro nel suo genere, un brano che si fa riconoscere dopo un solo secondo dall’inizio, una canzone nata per diventare un evergreen del gruppo e del periodo. Altri brani del disco sono LOVE YOU INSIDE OUT, che ricalca l’atmosfera di Febbre del sabato sera, con un uno degli archi che si muove con grande intelligenza. E ancora STOP (THINK AGAIN), canzone differente da tutte le altre del disco, più orientata verso standard black classici e che potrebbe far parte del repertorio di un artista r’n’b; è nelle corde di un cantante nello stile di Billy Paul o Al Green, che non a caso ha inciso una versione stupenda di HOW CAN YOU MEND MY BROKEN HEART. Alcuni ospiti d’eccezione nel disco: Herbie Mann (flauto) Joe Lala (percussioni), George Terry (chitarrista di Eric Clapton) e l’intera sezione di fiati del complesso rock pop dei Chicago (non so se mi spiego!) e cioè Loughnane, Parazaider e Pankow. Un disco che era considerato la prova del nove di un gruppo che non scriveva pezzi per un vero “loro” disco da troppo tempo e che non ha fallito assolutamente fino a raggiungere la perfetta fusione fra la loro vecchia anima (quella del pop sofisticato e romantico) e l’imperante discomusic (che comunque è agli sgoccioli). Difatti, dal 1979 in poi, i Bee Gees usciranno allo scoperto molto ma molto raramente. Negli anni ottanta le loro sortite possono contarsi sulla punta di una sola mano: 1981 (HE’S A LIAR) 1987 (YOU WIN AGAIN) e 1989, tour mondiale e album ONE. Non vennero in Italia perché Maurice era indisposto. Come si è detto i Bee Gees hanno due facce ugualmente capaci di raccogliere consensi: quella affezionata al gruppo degli inizi e quella dei nuovi adepti, che si sono avvicinati al gruppo da quando hanno cominciato a fare discomusic. Il tour mondiale del 1979 non prevede – neanche stavolta – l’Italia. I preparativi per la tournèe sono colossali: per più di un mese Robert Stigwood, il loro produttore li ha rinchiusi in una villa principesca di Miami. Arrivano su Limousine corazzate nel primo pomeriggio provenienti da Biscayne Bay, dove Barry possiede una villa altrettanto maestosa e rimangono in studio fino a notte inoltrata. Il debutto avverrà in Texas e, man mano, si sposteranno in tutti gli States. Gli impianti, il palco viaggiante e gli strumenti si muoveranno su cinque autotreni mentre i tre fratelli avranno a disposizione un jet privato. Uno dei posti nel quale suoneranno sarà il famoso Dodger Stadium di Los Angeles, aperto fino ad ora tre volte alla musica: nel 1966 per i Beatles, nel 1975 per Elton John ed ora a loro disposizione. Naturalmente anche in Italia ci si dà da fare per portarli in uno stadio ma non c’è niente da fare. La risposta come al solito è la seguente: avete i terroristi ed un pubblico violento. Da voi non veniamo. Ma siccome il nome Bee Gees fa vendere qualsiasi cosa, Vittorio Salvetti li premierà alla distanza all’Arena di Verona l’8 settembre, durante la finale del Festivalbar. Il quale Festivalbar li ebbe ospiti quando presentarono la canzone partecipante alla competizione nel 1973, WOULDN’T IT BE SOMEONE. Il compenso che percepirono a quel tempo, sei anni dopo non basterebbe neanche a coprire la spese di viaggio.

Bjorn Borg

Tornando alle Brigate Rosse, il tennista Bjorn Borg, riesce a farsi condannare a morte in contumacia. La sentenza di morte nascerebbe da un servizio fotografico al quale il campione svedese si era prestato durante un soggiorno in Israele. Dopo un’esibizione a Tel Aviv con l’amico rivale Vitas Gerulaitis, si concede alcuni giorni di vacanza nei quali, per giocare, si era fatto ritrarre con la divisa militare israeliana, cosa che avrebbe fatto imbestialire le Brigate Rosse che decidono di condannarlo a morte. Dopo queste minacce Borg annulla alcuni impegni e apparizioni televisive in Italia, saltando addirittura il WCT di Milano. Sappiamo che Borg in Italia venne eccome, in seguito, tantochè si sposò Loredana Bertè. Non si sa, tra le due condanne, quale alla fine avrebbe preferito.

Renato Zero

E’ indubbiamente, al momento, il personaggio numero uno della musica italiana, e non solamente, perché il suo singolo (IL CAROZZONE) e il suo 33 giri (EROZERO) sono saldamente al comando delle rispettive graduatorie di vendita. Difatti, non si vuole per una volta parlare del Renato Zero prettamente discografico ma del Renato Zero sul palco e sul set. Il suo spettacolo itinerante chiamato come il long playing, cioè EROZERO, è in dirittura d’arrivo. Terminerà il 10 di giugno un viaggio iniziato il 23 marzo. Oltre a cantare e presentarsi in scena con i costumi più improbabili, Renato cerca di fare dello spettacolo un happening musicale con risvolti di tipo sociale, anche se un po’ triti e ritriti. La solita favola esistenziale, la solita lotta tra bene e male, tra la vita e la morte e la recriminazione nei confronti della società opprimente con chi si dichiara differente dalla massa. L’esile trama: un personaggio ha le sorti del mondo tra le mani: basterebbe premere un bottone per farlo saltare in aria. Renato Zero che impersona l’Uomo, lo salverà. Le coreografie sono di Luciana Verdeggiante. Filosofia spicciola che comunque piace al pubblico di Renato Zero che varia dalla ragazzina di 14 anni, innamorata di lui e delle sue canzoni, all’omosessuale che vede in lui un riscatto da una vita vissuta in sordina. Dai tossicodipendenti, dei quali prende le difese in quanto vittime della società, alle mamme che accompagnano le figlie minorenni. Questa la rappresentazione scenica: ai due lati del palco, dondolanti su altalene, appaiono due donne mascherate. Una di rosso (la Morte) ed una di bianco (la Vita) Entrambe cominciano a declamare le tappe della vita di Renato con parole roboanti ed allegoriche e se lo contendono (quanto egocentrismo del protagonista in questo spettacolo!) Poi la musica assume un ritmo sempre più incalzante e appare Zero che canta LA FAVOLA MIA, vestito con una grande tunica bianca. Finita la canzone , la Morte e la Vita continuano a battibeccare e per tutta la durata dello spettacolo avranno la funzione di legare le sue apparizioni dandogli il tempo di cambiare costume e introdurre i vari personaggi dello spettacolo. Alla fine Renato concede sempre due bis che quasi invariabilmente risultano essere IL CARROZZONE e TRIANGOLO.
Nello spettacolo ci sono 24 canzoni delle quali otto sono tratte dall’ultimo LP. Il suo tendone mobile chiamato Zerolandia fa registrare ogni sera il tutto esaurito. Da Roma a Pordenone è un tripudio di folla. Due tempi per due ore di spettacolo, dieci persone sulla scena,oltre lui, dopo aver selezionato - si dice – ottocento candidati. Due su tutti, la cantante Farida (vecchia amica dai tempi del primo contratto con la RCA, nel 1967) e Yo Yokaris, per il quale scrive un pezzo che verrà stampato su etichetta Zerolandia, IL MAGO DELLA PIOGGIA. I suoi sorcini , così chiama i suoi ammiratori, lo credono una specie di divinità pagana e in fondo, ci crede anche lui, che si cala perfettamente nel ruolo di santone degli oppressi, dei discriminati, dei drogati. Tanto che dichiara : datemi un drogato, riuscirò a disintossicarlo, datemi un ateo, riuscirò a convertirlo, datemi un criminale e lo redimerò. Questo è il Renato Zero 1979. Non si sa se ci fa o c’è davvero. Perlomeno è un ottimista e del male non ne fa. Crede che con una canzone si possa salvare il mondo e sanare tutti i mali (a patto, però, che questa canzone sia una delle sue).E’ anche un attimino contraddittorio: sul palco si rivolge al suo apostolato sperando in un incontro al di fuori dal tendone salvo poi rifiutarsi a firmare autografi come farebbe una qualsiasi divetta capricciosa. Da un anno e mezzo Renato Zero potrebbe veramente fondare una setta dove il feticcio da adorare incondizionatamente sia lui. Un pubblico di reietti e di gente comune è disposta a fare follie per lui ma non per come canta o per i suoi dischi, ma per i messaggi che lancia nei suoi testi e le speranze che dà a gente che forse di speranze ne aveva pochine. Un ruolo carico di responsabilità che forse non avrebbe voluto neanche lui ma che ormai non può rifiutare. Un tempio pagano frequentato da persone in adorazione spasmodica, un’ adorazione poco composta e non raccolta. Gente semplice ed illusa di poter cambiare il proprio destino grazie a canzoni come ARRENDERMI MAI. Una vittima da consolare e un eroe da assumere come modello, sicuramente un personaggio buonista. Perché al contrario di altri modelli negativi degli anni settanta, non propone mai messaggi che esortino alla violenza, anzi. I suoi discorsi, come detto, sono rivolti alla comprensione, alla tolleranza e all’ottimismo. Ogni epoca ha i suoi eroi: in questo scorcio finale di decennio c’è Renato Zero. Comunque, sempre meglio un Renato Zero che un Renato Curcio.
Il film di Renato Zero nelle sale cinematografiche italiane si chiama CIAO NI’ (modo di dire romano). Una trama esile costellata da una quindicina di canzoni del nostro, riprese da spettacoli veri (interessante rivedere i costumi di scena che usava all’epoca) o sceneggiate e girate per il film. Il protagonista deve lottare contro un nemico misterioso che lo vuole uccidere e contro tutte le convenzioni della società moderna. Alla fine, spaccando uno specchio che riflette la sua immagine, Renato Zero scopre che il nemico misterioso era lui stesso o meglio, il suo alter ego. Questo film ottiene un successo strepitoso ai botteghini, un successo sul quale nessun operatore del settore avrebbe giurato, almeno non in queste proporzioni. Il pubblico fa la fila per andarlo a vedere e in una giornata di maggio, in un solo cinema a Roma, ha incassato la cifra di 24 milioni di lire. Roba da film tipo JESUS CHRIST SUPERSTAR o LA FEBBRE DEL SABATO SERA. La domanda negli ambienti musicali era come sarebbe andato il film di Renato Zero. Se avesse avuto successo si sarebbero potute proporre operazioni similari. Ci ha provato Anna Oxa col film MASCHIO, FEMMINA, FIORE, FRUTTO, dove la cantante fa la doppia parte di uomo e donna, tanto per ritornare sull’argomento che contribuì a renderla famosa un anno fa quando si vociferava che fosse un uomo travestito da donna (sospetto avvolorato dall’abbigliamento maschile in stile punk). Ma i risultati furono subito miserrimi. Pochi giorni nelle sale, un flop clamoroso che seguiva quello di Alan Sorrenti col suo film FIGLI DELLE STELLE. Il discorso è che non si possono più riproporre filmetti canori così come si faceva negli anni sessanta: prendi una canzone famosa, il cantante che l’ha lanciata e fanne un film: in provincia sarà successo assicurato. Ora il pubblico sembrerebbe maturato e non gli basta più il filmetto con il divo canoro. Vuole lo spettacolo e nel film di Renato Zero l’ha trovato. Non in quelli della Oxa e di Sorrenti.

Franco Califano

Guai per Franco Califano, che comunque non è nuovo a fatti del genere. E’ stato arrestato perché ritenuto responsabile di traffico di droga. I carabinieri gli hanno trovato 30 grammi di cocaina, 77 flaconi di anfetamina e una pistola calibro 38 a tamburo con 55 cartucce. Quando il responsabile della Mobile lo ha dichiarato in arresto, Califano ha avuto un cedimento ed è scoppiato a piangere. Su di lui pende anche un provvedimento di fermo di polizia giudiziaria perché accusato di sfruttamento della prostituzione minorile (una giovane l’ha denunciato). Le indagini della Mobile avevano preso il via molto tempo prima, da circa 6 mesi. Gli agenti della Mobile avevano arrestato un noto personaggio responsabile di aver sfregiato il “playboy” Gianfranco Piacentini rompendogli in faccia una bottiglia mentre si trovavano nella discoteca Ippopotamus a Roma. Il noto personaggio (noto alla Mobile più che alla gente comune) era stato già arrestato insieme a Califano nel 1970 (nel famoso affaire Walter Chiari-Lelio Luttazzi) sempre per traffico di droga. Ma fossero tutti qui i guai: mentre è in carcere, in casa di Califano fanno visita i ladri, che glie la svaligiano devastandola senza una particolare ragione, prendendosela con i tendaggi e con i trofei raccolti nel corso della sua carriera. L’avvocato dell’autore dice che si tratta di un azione persecutoria di ignoti nemici.

Tina Turner

Ritorna al pubblico italiano dopo un po’ di tempo che non si vedeva dalle nostre parti Tina Turner, senza il fardello ad alto tasso etilico e manesco del marito Ike. Insieme a Pippo Baudo, Heather Parisi, La Smorfia, Fioretta Mari, Tullio Solenghi ed Enrico Beruschi partecipa allo spettacolo LUNA PARK, trasmissione televisiva in otto puntate del sabato sera. Cambio di immagine per la pantera nera della musica soul: capelli biondi, abiti di scena microscopici, molto scollati (prima utilizzava minigonne inguinali) per far risaltare ancora di più la tonicità del suo corpo di ultra quarantenne. Un corpo veramente bello, che fa a pugni con la carta d’identità. Un corpo che appare integro anche alla soglia dei sessanta, quando Tina è sulla scena (metà anni novanta) impegnata in un tour mondiale. Non è la prima volta che la vediamo dal vivo in Italia, in tv. L’ultima fu durante una puntata di Teatro Dieci del 1971 condotto da Alberto Lupo. Con la stampa chiacchiera amabilmente un po’ di tutto: dal successo che Donna Summer continua a riscuotere nel mondo nonostante il genere disco sia ormai agli sgoccioli (anche se non sembrerebbe, data la mole di dischi usciti negli ultimi mesi), al motivo per cui lei stessa non si sia convertita alla discomusic (il successivo, LOVE EXPLOSION, sempre del ’79, sarà comunque ricco di ammiccamenti al genere disco) negli anni passati. Alla domanda di un giornalista, se sia ricca o meno, risponde pressappoco: sì, sono ricca. Ma forse le regine non lo sono?.
Il suo nuovo disco si chiama ROUGH e come recita il titolo (durezza, asperità) Donna si presenta da sola con la sua proverbiale carica di aggressività fisica. Questo disco è in sintonia con le migliori tradizioni del R’&’B, segna un ritorno alle origini che culmina con la riesumazione del brano di Ray Charles NIGHT TIME IS THE RIGHT TIME. Per la cantante era giunto il momento di valere qualcosa anche senza il marito. Non tanto per il pubblico, perché questo lo aveva capito già, ma per lei e per la sua stabilità psicologica, per la sua sicurezza interiore. E anche se non sarà uno dei dischi della cantante che ha venduto di più, resta un ottimo viatico per iniziare alla grande il decennio successivo, quello degli ottanta, che la vedrà trionfante sui palchi di tutto il mondo. Da sola, senza un pessimo marito sempre in cerca dell’occasione adatta per sminuirla e soggiogarla psicologicamente.

Curtis Mayfield

Si parlava di personaggi della musica soul (ma anche pop) che cambiano repertorio per ragioni commerciali. La disco music, essendo diventata uno dei filoni più redditizi del mondo discografico, continua ad annoverare nelle sue file nuovi adepti. Oltre i già citati Bee Gees, chi avrebbe mai pensato che un santone del soul come Curtis Mayfield, uno che cambiò volto alla soul music negli anni sessanta, si avvicinasse al mondo delle discoteche? Firma un contratto con la Curtom, che viene distribuita dalla RSO (Robert Stigwood Organisation), quella dei Bee Gees. Questo significa garanzia di successo nel mercato disco praticamente sicura. A chi gli chiede il perché di questo voltafaccia Mayfield risponde che l’ha fatto (naturalmente) per soldi, e tanti. Ma anche perché era stufo di sentire nelle canzoni da discoteca frasi scontate e sempre simili come let’s dance o shake your body e decide quindi di dare un senso ai testi e in qualche modo sdoganare (verbo che odio) la discomusic considerata una sorella minore e deficiente (ma ricca) del soul, del R’n’B e del funky. Per celebrare alla grande il passaggio di Curtis Mayfield alla discomusic una rivista inglese ha coniato un nuovo verbo: discofication. Intraducibile perché inesistente ma il significato vorrebbe essere la dischificazione di un personaggio solitamente lontano da quel mondo. Comunque non dimentichiamoci che poi tanto lontano non lo era perché già nel 1972 incise la colonna sonora molto ‘funkeggiante’ di SUPERFLY, pezzo ballatissimo nelle discoteche di tutto il mondo.

Isaac Hayes

Un altro santone della black music che comunque è sempre stato abbastanza vicino alla musica delle sale da ballo è Isaac Hayes. Quasi contemporaneamente al disco di Barry White (THE MAN) esce anche il suo: FOR THE SAKE OF LOVE. Hayes, alla stregua di Barry White, ha creato uno stile inconfondibile. Se White è quello di LOVE’S THEME lui è l’autore di SHAFT e il “la” al genere disco, l’ha dato anche lui, segnando una svolta importante nell’evoluzione del soul e della discomusic. Così, come Barry White, ha la sua orchestra personale che grossissimo successo ha avuto nel periodo 1972-1977 e che adesso sta un po’ battendo la fiacca, avendo saturato il mercato del suo pubblico. Quindi, sempre discomusic è, ma di classe. Così come quella di Mayfield, di White. Per l’ex arrangiatore di Otis Redding, un LP che mette in mostra una nuova stringatezza. Quindi poco uso di archi come era di moda fino ad un paio di anni fa e come ci aveva abituato anche Barry White ma un suono elegante, secco e nervoso.

Elton John

Elton John sbarca in Russia ed è il delirio a Stalingrado (San Pietroburgo). I giovani sovietici, in astinenza da sempre per quel che riguarda la musica pop e rock (il massimo della “trasgressione” permessa dalle autorità politiche, negli anni passati, erano stati Robertino e Claudio Villa o altri cantanti italiani) sbalordiscono la polizia che non aveva mai visto tanto fanatismo esternato in queste proporzioni ma sbalordisce anche lo stesso Elton John che, quanto a scene di isteria collettiva, ne sa qualcosa. Egli, nel 1979, vive un momento di stanca a livello internazionale e il suo peso, nel mondo della musica pop, è un po’ diminuito a vantaggio di altri personaggi emergenti. Lo sbarco in Russia, sempre improbabile per un cantante straniero, era stato pianificato per un rilancio su scala internazionale: la pubblicità derivante dall’operazione avrebbe sicuramente fatto rialzare le sue quotazioni sul mercato che “conta”. Ma il delirio collettivo, neanche si stesse a Salem nel 1600, quello no,non era previsto. La troppa astinenza, come si è detto, può provocare effetti collaterali, come questo. I russi non conoscevano Elton John se non di nome, non avevano i suoi dischi (naturalmente vietati), non conoscevano le sue canzoni e non capivano una parola di inglese ma un successo così, come affermerà lo stesso Elton John, non l’aveva mai avuto. Un successo dovuto più ad un desiderio di normalità che all’effettiva presenza di un personaggio che comunque sia, nonostante il momento di calo, era da considerarsi uno dei massimi esponenti della musica mondiale. L’entusiasmo durante lo spettacolo è stato soffocato non senza difficoltà dalla polizia, ma quando Elton John ha omaggiato pubblico e Beatles cantando la celeberrima BACK IN THE USSR, la gente ha gettato via ogni remora ed ogni timidezza, scrollandosi di dosso anni di silenzio forzato: e ci sono stati assalti al palco (assalti pacifici), richieste di autografi - non importa a chi, l’importante era beccare qualcuno che stesse sul palco – richieste di bis. E, alla fine, la sua macchina assediata ed inseguita dalla folla per qualche centinaio di metri. Perfino qualche poliziotto si è lasciato coinvolgere dall’entusiasmo e si è messo a chiamare il cantante per nome.

John Wayne

Classe 1907, fama da duro. Il cowboy per eccellenza, “furiosamente” militarista ed interventista, l’icona dei repubblicani americani, patriota all’estremo. Tutte cose che facevano storcere il naso ad un certo tipo di critica, ma che lo facevano amare dalla gente comune, dal sud al nord dell’America. Lui a quei critici, possibilmente avrebbe sparato, facendo roteare le colt e soffiando sul fumo fuoriuscito. Non per niente si chiamava John Wayne. Anche se il suo vero nome era Marion Michael Morrison, dell’Iowa, robusto giocatore di football americano, figlio di emigrati irlandesi. Quando si aggirava per Hollywood in cerca di particine, il suo nome era ancora quello. Nel 1930 la prima parre in THE BIG TRAIL, ovvero IL GRANDE SENTIERO. Il successo fu immediato anche se per tutti gli anni trenta girò film minori ma di cassetta. Nel 1939 OMBRE ROSSE e la fama internazionale. Durante la guerra, nonostante la sua patriottica figura non andò al fronte ma Mac Arthur gli disse che rappresentava il militare americano per eccellenza meglio di chiunque altro e quindi interpretò tantissimi film, sempre in divisa, da marine come da ufficiale di cavalleria. Odiava di un odio estremo i commies (come venivano chiamati in modo dispregiativo in Usa i comunisti), odiava gli attori e i registi che svilivano la bandiera a stelle e strisce, che non sentivano l’amor di patria come una priorità e che erano pronti a svendersela in film che avrebbero fatto fortuna nella patria dei frogs-eaters (come gli americani tutti di un pezzo chiamano i francesi, mangiatori di rane). Negli anni cinquanta fu uno dei creatori di Alleanza Cinematografica, un’associazione impegnata nella salvezza degli ideali americani e venne alle mani con il regista Edward Dmytryk perché aveva usato la parola masse nella maniera tipica dei commies. Naturalmente a rimetterci non fu John Wayne. In realtà Dmytryk non era affatto un commie ma aveva solamente delle idee leggermente più a sinistra di quelle del Duca. Antirosso, antigiallo, antitutto quello che non era caucasico e bianco-rosso-blu. Ma soprattutto contro i cosiddetti intellettuali da salotto, che a riprese, aveva contribuito a mandare all’ospedale più di una volta. Dicevano che si era immedesimato nel suo personaggio cinematografico e che sognava sempre di sterminare a turno comunisti, indiani, vietcong, giapponesi, nazisti. In realtà, come confermarono quelli che lo conoscevano da vicino si considerava soltanto un uomo giusto che non aveva mai violato la legge di Dio e degli uomini ed era anche abbastanza modesto da non considerarsi neanche un attore o un divo ma semplicemente un lavoratore dietro la macchina da presa. Ora è morto e lo piange l’America intera. Un personaggio così controverso e politicamente scorretto come non se ne è avuti mai nella storia del cinema. Chiunque avrebbe cercato o di mediare o addirittura di nascondere certe idiosincrasie verso determinate categorie. Lui non se n’è mai curato ed ha proseguito nel suo stile di vita (criticabile o meno) perché era il “suo” e l’attore lo preferiva fare al cinema, non nella vita di tutti i giorni. Soleva ripetere: duecento milioni di americani sono con me, gli altri possono dire quello che vogliono. Si fottano. Il 10 di giugno perde la sua battaglia contro il cancro inziata nel 1964. Come un vero eroe da film, man mano che il dolore si acuiva, rifiutò gli anelgesici perché voleva godersi la sua famiglia - che gli era sempre accanto - desideroso di essere cosciente fino all’ultimo e di poter vedere la morte quando sarebbe arrivata: se avesse potuto gli avrebbe anche sparato un cazzottone nei denti! L’ultimo giorno decide di morire come un cattolico, perché cattolici erano le sue tre mogli e i suoi sette figli. Chissà se gli fa piacere cavalcare nelle verdi praterie di Manitù a fianco dei tanti pellerossa che nei film ha contribuito a mandare all’altro mondo.. in fondo la morte, come diceva Totò, suo collega, è una livella.

Christian Calabrese

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SAINT-VINCENT ESTATE (1979)
di David Guarnieri
Immancabile, come ogni anno, arriva l’appuntamento con “Saint–Vincent Estate”, manifestazione patrocinata dall’Amministrazione Regionale della Valle d’Aosta e della “SITAV (Società Incremento Turismo Alberghiero Valdostano)”. La “FLS (Federazione Lavoratori Spettacolo)” indice una conferenza sul tema “Convenzione Internazionale sul diritto degli Artisti impegnati nella produzione dei fonogrammi e ruolo del Sindacato in difesa degli esecutori ed interpreti musicali”. Nel corso del convegno vengono dibattute le difficoltà della nostra industria discografica, con una attenzione particolare alle questioni poste dalla Convenzione Internazionale sulla protezione degli artisti nazionali. Nonostante le seriose premesse, il Comune di Saint -Vincent e la Rai intendono proporre al pubblico uno spettacolo godibile e fastoso. L’ex “Disco per l’estate”, da quattro anni privato della gara musicale, è anche nel 1979 una “tranquilla” vetrina per proporre i successi dell’estate.

La struttura che ospita il gala è il Casinò de la Vallée, reso ancor più scintillante dallo scenografo Gianni Villa. La regia è curata dal più che affidabile Antonio A. Moretti. I conduttori del varietà sono i Gatti di Vicolo Miracoli (Jerry Calà, Franco Oppini, Nini Salerno ed Umberto Smaila), reduci dal grande successo in hit parade del brano “Capito?!”, sigla di “Domenica in” (il contenitore pomeridiano di Rai 1 condotto da Corrado). La direzione artistica è curata da Gianni Ravera, il quale riesce a comporre un cast particolarmente ricco, che comprende, tra gli altri: Fred Bongusto con “Lunedì” (dall’omonimo album prodotto da Don Costa e Teddy Randazzo), Brenda Mitchell (“Bad Party”), la grintosa Anna Oxa con “Il pagliaccio azzurro”, Amedeo Minghi con “Di più”, Umberto Tozzi, che canta “Non va che volo” (dal fortunatissimo album “Gloria”), Pupo con “Forse”, Claudio Baglioni con “Un po’ di più” (dall’lp “E tu come stai?”), Adriano Pappalardo, aggressivo come al solito, con la sua “Ricominciamo”, il romantico Sandro Giacobbe con “Blu”, Umberto Balsamo, uno dei trionfatori dell’estate ’79 con il suo tormentone “Balla”, Raffaella Carrà e la sua “E salutala per me” (forse il suo unico tentativo di proposta musicale, senza il supporto di una trasmissione televisiva), gli Idea 2 con “She’s a Witch” (sigla del telefilm “Vita da strega”), il trionfante Patrick Hernandez con “Born To Be Alive”. Amanda Lear (“Fashion Pack”) e Patty Pravo con “Autostop” si contendono la palma della trasgressività. La nota dissacrante viene offerta da Rino Gaetano e la sua divertente “Ahi, Maria” e – addirittura – dal futuro premio Oscar Roberto Benigni con il brano “Playboy”. L’artista più applaudita, in definitiva risulta Gloria Gaynor, interprete di “I Will Survive”, un enorme successo in tutto il mondo. Anche in questo 1979, la rassegna di “Saint-Vincent Estate” ottiene un ottimo indice di ascolto, soddisfacendo in pieno le aspettative della Rai e del Comune di Saint-Vincent, interessato alla manifestazione, per promuovere ulteriormente i servizi connessi al turismo: hotel, ristoranti, casinò e via dicendo. Gli acquirenti sottolineano il gradimento alle canzoni ascoltate nello spettacolo, premiando particolarmente i prodotti presentati da Tozzi, Pappalardo, Gaetano, Oxa, Hernandez, Gaynor, Baglioni, Balsamo e la Lear.

Un grande ciao da
David Guarnieri

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