Se si guardando le liste dei candidati per le elezioni del momento
sembra di leggere una locandina di qualche spettacolo, per quanti
personaggi famosi hanno tentato la carta del politicante. Si sa, non è
cosa nuova; è una pratica già in atto dal 1970 che questo o quel
cantante (o attore) tentino di farsi eleggere dalla gente in nome del
loro stesso nome e in aggiunta, sicuramente, degli “alti valori morali”
che vengono professati. Tutti, sembra abbiano scoperto di possedere una
spiccata vocazione politica. La DC schiera in campo un nome che forse
più roboante non si può, ossia Alberto Sordi, grande amico del “divo
Giulio”, il PSDI di Longo Antonella Steni e Nicola Rossi Lemeni, famoso
basso. Il PSI sbandiera personaggi quali Ottavia Piccolo, Pino Caruso e
Claudio Villa che è già, o quasi, al suo decimo cambiamento di bandiera.
Il Partito Radicale, oltre al suo showman ufficiale Marco Pannella,
annovera Giorgio Albertazzi, Maria Monti, Ricky Gianco. Il PRI Paola
Borboni e Renato Pozzetto. Il PCI i soliti noti, ossia Carla Gravina,
Ettore Scola, Luigi Squarzina e una stagionata Pupella Maggio. C’era da
aspettarsi una valanga di voti per questi nomi famosi e invece,
stranamente, gli italiani che di solito abboccano a tutto non si sono
fatti intimidire hanno preferito i soliti collaudati personaggi della
politica. L’unica che si è classificata seconda tra i non eletti è stata
la Gravina. Per tutti gli altri c’è stata solo la soddisfazione di aver
contribuito a portare qualche voto in più al partito che
rappresentavano. Certo che se oggi un personaggio del calibro di Sordi
potesse partecipare ad una tornata elettorale prenderebbe una valanga di
voti, data la carenza di politici veri che affligge oggi l’Italia. Ma
nel 1979 il richiamo più forte erano i vari Berlinguer, Almirante,
Andreotti e compagnia. Come dicono a Milano,
ofelè fa il to mestè. Tanto
per la cronaca: si sa che ad ogni elezione gli elettori fanno la
conoscenza con partiti approntati per la bisogna, nati dal nulla e
finiti nel dimenticatoio dopo l’elezione. Questa volta tocca ai
Cavalieri Del Nulla che hanno come simbolo una specie di maschera che
ride (ma che non dovrebbero essere alla prima apparizione). Ci invitano
a votare anche per il Partito Italiano dei Disoccupati e per un omino
con le gambe aperte, di quelli che sembrano presi in prestito dalle
insegne delle toilette per signori: il nome del partito che c’è dietro
si chiama Valorizzazione Dell’Individuo. Se voleste votarlo, assicuratevi
che non sia già “occupato”.
Sempre per la cronaca, a vincere è la DC col 38,3% in leggero calo
rispetto alle elezioni del 1976 (38,7). Secondo il PCI, in forte calo
(30,4 rispetto al 34,4 del 1976). Avanza il PSI di Craxi, anche se di
poco (il 9,8 rispetto al 9,6 della volta precedente. Chi avanza in
maniera massiccia sono invece i Radicali di Pannella che arrivano al 3,4
contro l’ 1,1 della tornata precedente.
Bee Gees
Rieccoli, sempre lì in cima alla vetta del successo, i fratelli Maurice,
Robin e Barry Gibb, al secolo i Bee Gees. Sono trascorsi quasi tre anni
dall’ultimo album da studio, c’è stato il successo galattico de LA
FEBBRE DEL SABATO SERA e, seppur marginalmente, di GREASE , intervallati
dal mezzo fiasco di SGT.PEPPER e di un disco dal vivo. Finalmente escono
con un nuovo disco il quale, naturalmente, non impiegherà che una
settimana dall’uscita nei negozi per insediarsi prima nelle zone alte
della classifica e poi al primo posto assoluto. E questo non riguarda
solo il 33 giri, dal titolo SPIRIT HAVING FLOWN, ma anche i primi due
singoli tratti dal nuovo lavoro, ossia TOO MUCH HEAVEN e TRAGEDY, la
canzone che nonostante l’arrivo di nuovi ospiti nelle classifiche
internazionali e italiane, non accenna assolutamente ad uscire dalla Top
Ten, con l’intenzione di stazionarci ancora per molto. I Bee Gees hanno
due diversi tipi di pubblico: quello di coloro che conoscono il gruppo
dal periodo 1977/78 e quello che lo conosce sin dagli esordi in campo
internazionale, cioè dal 1967, quando si impose all’attenzione dei media
italiani con una serie di successi di eccellente livello come
MASSACHUSETTS, NEW YORK MINING DISASTER 1941 e WORLD. Poi ci fu lo
scioglimento dopo IOIO del 1970 e la rinascita con un nuovo stile
musicale, quello delle ballate eleganti e sofisticate dal forte sapore
internazionale, di un pop eccellente e di grande successo: e siamo al
periodo di HOW CAN YOU MEND A BROKEN HEART, di MY WORLD, e di RUN TO ME.
Canzoni che non hanno assolutamente bisogno di presentazioni. Nel 1974
sembrava avessero perso la vena così felice che li ha sempre distinti e
la voglia di cantare e comporre comincia a venir meno. Non sanno quale
tipo di musica proporre, si trovano spiazzati in un panorama che è in
bilico tra il progressive della seconda generazione e la musica da
discoteca. Scelgono quest’ultima e lanciano pezzi come JIVE TALKIN’ e
YOU SHOULD BE DANCING che avrebbero potuto ben figurare in un album
degli Earth Wind & Fire o degli B.T.Express. Invece è farina del loro
sacco, di queste tre fenici australiane piene di risorse, di stile e di
vita (come e più dei gatti). Quando ormai li davano per spacciati o
pronti per orbitare nel pianeta Las Vegas (ossia il cimitero degli
elefanti per artisti importantissimi ma che hanno difficoltà a proporsi
sul mercato con materiale nuovo) loro che cosa fanno? Lanciano quei due
pezzi che in men che non si dica entrano nelle classifiche mondiali dei
dischi più venduti, delle air play radiofoniche, nelle speciali
graduatorie dei disc jockey. Insomma, è di nuovo la Bee Gees mania, come
e più di dieci-undici anni fà. Il loro tour viene registrato per intero
ed uno dei concerti viene trasferito su master, studiato e missato alla
perfezione in Francia, al castello d’Herouville. Ne uscirà HERE AT
LAST... BEE GEES LIVE che contrariamente a tutte le vecchie illazioni, che
li definivano come pessimi showmen, Barry e fratelli si svelano non solo
efficaci sotto il profilo tecnico ma veri e propri enterteiner, maturi
per ogni pubblico, specialmente per quello smaliziato americano. L’album
è una carrelata di tutta la produzione del gruppo, tra guizzi ritmici e
sospiri melodici, e propone sia pure con malcelata modestia il monumento
a loro medesimi. Ma il meglio deve ancora arrivare. E arriva nel 1977: inutile
star qui a raccontare quel che ha significato un film e una colonna sonora come
LA FEBBRE DEL SABATO SERA perché all’argomento abbiamo anche dedicato uno
scritto (sempre disponibile nell’archivio degli articoli).
Poi il 1979, quest’anno. Altro enorme bagno di fama e di dollari (non
australiani!) per i tre fratelli Gibb. Un disco che avrebbe dovuto
essere meno “disco” (inteso come genere) e più impostato verso il soul
ma da un indagine di mercato si viene a sapere che il pubblico americano
vuole i Bee Gees degli ultimi due anni e quando il pubblico vuole
qualcosa, che fai? Non l’accontenti? E riecco qui Maurice, Robin e Barry
con i loro falsetti, la perfetta sovrapposizione delle voci, i fiati e i
giri di basso così cari al gruppo e al genere “disco” in generale
(quello di un certo livello, si intende). La cosa che potrebbe
assolutamente apparire strana è che il disco venga pubblicato prima in
Italia che in Usa. Una ragione c’è: il disco era già pronto da quattro
mesi ma i precedenti album non accennavano ad abdicare nelle charts
statunitensi e allora, per non inflazionare il mercato ormai saturo, si
è pensato di far tirare il collo ai loro fan (ma non solo a loro).
Questo disco è anche il primo della loro produzione, se si esclude
SATURDAY NIGHT FEVER, ad essere preso sul serio dalle maggiori radio
statunitensi, che si rivolgevano ad un pubblico di colore, ed il loro
album più venduto che non fosse una colonna sonora: vende qualcosa come
35 milioni di copie. Il disco viene lanciato insieme a TOO MUCH HEAVEN,
un bel pezzo, melodico e di ampio respiro che francamente non fa in
tempo ad uscire che arriva subito alla posizione numero uno della
classifica. Troppo perfetto e troppo architettato alla maniera di un
megahit per fallire la prova. Dopo un mese e mezzo viene lanciato il
secondo singolo mentre il primo è ancora in classifica (c’è chi lo da al
secondo posto, chi al terzo e chi addirittura al primo! Stiamo parlando
di un pezzo uscito a marzo). Si chiama TRAGEDY ed è un brano molto
ritmato, ad effetto, articolato in maniera inconsueta e dai toni
“epici”, grande dispiego di strumentazione ed un arrangiamento
efficacissimo: anche qui, siamo di fronte ad un capolavoro nel suo
genere, un brano che si fa riconoscere dopo un solo secondo dall’inizio,
una canzone nata per diventare un evergreen del gruppo e del periodo.
Altri brani del disco sono LOVE YOU INSIDE OUT, che ricalca l’atmosfera
di Febbre del sabato sera, con un uno degli archi che si muove con
grande intelligenza. E ancora STOP (THINK AGAIN), canzone differente da
tutte le altre del disco, più orientata verso standard black classici e
che potrebbe far parte del repertorio di un artista r’n’b; è nelle corde
di un cantante nello stile di Billy Paul o Al Green, che non a caso ha
inciso una versione stupenda di HOW CAN YOU MEND MY BROKEN HEART. Alcuni
ospiti d’eccezione nel disco: Herbie Mann (flauto) Joe Lala
(percussioni), George Terry (chitarrista di Eric Clapton) e l’intera
sezione di fiati del complesso rock pop dei Chicago (non so se mi
spiego!) e cioè Loughnane, Parazaider e Pankow. Un disco che era
considerato la prova del nove di un gruppo che non scriveva pezzi per un
vero “loro” disco da troppo tempo e che non ha fallito assolutamente
fino a raggiungere la perfetta fusione fra la loro vecchia anima (quella
del pop sofisticato e romantico) e l’imperante discomusic (che comunque
è agli sgoccioli). Difatti, dal 1979 in poi, i Bee Gees usciranno allo
scoperto molto ma molto raramente. Negli anni ottanta le loro sortite
possono contarsi sulla punta di una sola mano: 1981 (HE’S A LIAR) 1987
(YOU WIN AGAIN) e 1989, tour mondiale e album ONE. Non vennero in Italia
perché Maurice era indisposto. Come si è detto i Bee Gees hanno due
facce ugualmente capaci di raccogliere consensi: quella affezionata al
gruppo degli inizi e quella dei nuovi adepti, che si sono avvicinati al
gruppo da quando hanno cominciato a fare discomusic. Il tour mondiale
del 1979 non prevede – neanche stavolta – l’Italia. I preparativi per la
tournèe sono colossali: per più di un mese Robert Stigwood, il loro
produttore li ha rinchiusi in una villa principesca di Miami. Arrivano
su Limousine corazzate nel primo pomeriggio provenienti da Biscayne Bay,
dove Barry possiede una villa altrettanto maestosa e rimangono in studio
fino a notte inoltrata. Il debutto avverrà in Texas e, man mano, si
sposteranno in tutti gli States. Gli impianti, il palco viaggiante e gli
strumenti si muoveranno su cinque autotreni mentre i tre fratelli
avranno a disposizione un jet privato. Uno dei posti nel quale
suoneranno sarà il famoso Dodger Stadium di Los Angeles, aperto fino ad
ora tre volte alla musica: nel 1966 per i Beatles, nel 1975 per Elton
John ed ora a loro disposizione. Naturalmente anche in Italia ci si dà
da fare per portarli in uno stadio ma non c’è niente da fare. La
risposta come al solito è la seguente: avete i terroristi ed un pubblico
violento. Da voi non veniamo. Ma siccome il nome Bee Gees fa vendere
qualsiasi cosa, Vittorio Salvetti li premierà alla distanza all’Arena di
Verona l’8 settembre, durante la finale del Festivalbar. Il quale
Festivalbar li ebbe ospiti quando presentarono la canzone partecipante
alla competizione nel 1973, WOULDN’T IT BE SOMEONE. Il compenso che
percepirono a quel tempo, sei anni dopo non basterebbe neanche a coprire
la spese di viaggio.
Bjorn Borg
Tornando alle Brigate Rosse, il tennista Bjorn Borg, riesce a farsi
condannare a morte in contumacia. La sentenza di morte nascerebbe da un
servizio fotografico al quale il campione svedese si era prestato
durante un soggiorno in Israele. Dopo un’esibizione a Tel Aviv con
l’amico rivale Vitas Gerulaitis, si concede alcuni giorni di vacanza nei
quali, per giocare, si era fatto ritrarre con la divisa militare
israeliana, cosa che avrebbe fatto imbestialire le Brigate Rosse che
decidono di condannarlo a morte. Dopo queste minacce Borg annulla alcuni
impegni e apparizioni televisive in Italia, saltando addirittura il WCT
di Milano. Sappiamo che Borg in Italia venne eccome, in seguito,
tantochè si sposò Loredana Bertè. Non si sa, tra le due condanne, quale
alla fine avrebbe preferito.
Renato Zero
E’ indubbiamente, al momento, il personaggio numero uno della musica
italiana, e non solamente, perché il suo singolo (IL CAROZZONE) e il suo
33 giri (EROZERO) sono saldamente al comando delle rispettive
graduatorie di vendita. Difatti, non si vuole per una volta parlare del
Renato Zero prettamente discografico ma del Renato Zero sul palco e sul
set. Il suo spettacolo itinerante chiamato come il long playing, cioè
EROZERO, è in dirittura d’arrivo. Terminerà il 10 di giugno un viaggio
iniziato il 23 marzo. Oltre a cantare e presentarsi in scena con i
costumi più improbabili, Renato cerca di fare dello spettacolo un
happening musicale con risvolti di tipo sociale, anche se un po’ triti e
ritriti. La solita favola esistenziale, la solita lotta tra bene e male,
tra la vita e la morte e la recriminazione nei confronti della società
opprimente con chi si dichiara differente dalla massa.
L’esile trama: un personaggio ha le sorti del mondo tra le mani:
basterebbe premere un bottone per farlo saltare in aria. Renato Zero che
impersona l’Uomo, lo salverà. Le coreografie sono di Luciana
Verdeggiante. Filosofia spicciola che comunque piace al pubblico di
Renato Zero che varia dalla ragazzina di 14 anni, innamorata di lui e
delle sue canzoni, all’omosessuale che vede in lui un riscatto da una
vita vissuta in sordina. Dai tossicodipendenti, dei quali prende le
difese in quanto vittime della società, alle mamme che accompagnano le
figlie minorenni.
Questa la rappresentazione scenica: ai due lati del palco, dondolanti su
altalene, appaiono due donne mascherate. Una di rosso (la Morte) ed una
di bianco (la Vita) Entrambe cominciano a declamare le tappe della vita
di Renato con parole roboanti ed allegoriche e se lo contendono (quanto
egocentrismo del protagonista in questo spettacolo!) Poi la musica
assume un ritmo sempre più incalzante e appare Zero che canta LA FAVOLA
MIA, vestito con una grande tunica bianca. Finita la canzone , la Morte
e la Vita continuano a battibeccare e per tutta la durata dello
spettacolo avranno la funzione di legare le sue apparizioni dandogli il
tempo di cambiare costume e introdurre i vari personaggi dello
spettacolo. Alla fine Renato concede sempre due bis che quasi invariabilmente
risultano essere IL CARROZZONE e TRIANGOLO.
Nello spettacolo ci sono 24 canzoni delle quali otto sono tratte
dall’ultimo LP. Il suo tendone mobile chiamato Zerolandia fa registrare
ogni sera il tutto esaurito. Da Roma a Pordenone è un tripudio di folla.
Due tempi per due ore di spettacolo, dieci persone sulla scena,oltre
lui, dopo aver selezionato - si dice – ottocento candidati. Due su
tutti, la cantante Farida (vecchia amica dai tempi del primo contratto
con la RCA, nel 1967) e Yo Yokaris, per il quale scrive un pezzo che
verrà stampato su etichetta Zerolandia, IL MAGO DELLA PIOGGIA. I suoi
sorcini , così chiama i suoi ammiratori, lo credono una specie di
divinità pagana e in fondo, ci crede anche lui, che si cala
perfettamente nel ruolo di santone degli oppressi, dei discriminati, dei
drogati. Tanto che dichiara : datemi un drogato, riuscirò a
disintossicarlo, datemi un ateo, riuscirò a convertirlo, datemi un
criminale e lo redimerò. Questo è il Renato Zero 1979. Non si sa se ci
fa o c’è davvero. Perlomeno è un ottimista e del male non ne fa. Crede
che con una canzone si possa salvare il mondo e sanare tutti i mali (a
patto, però, che questa canzone sia una delle sue).E’ anche un attimino
contraddittorio: sul palco si rivolge al suo apostolato sperando in un
incontro al di fuori dal tendone salvo poi rifiutarsi a firmare
autografi come farebbe una qualsiasi divetta capricciosa. Da un anno e
mezzo Renato Zero potrebbe veramente fondare una setta dove il feticcio
da adorare incondizionatamente sia lui. Un pubblico di reietti e di
gente comune è disposta a fare follie per lui ma non per come canta o
per i suoi dischi, ma per i messaggi che lancia nei suoi testi e le
speranze che dà a gente che forse di speranze ne aveva pochine. Un ruolo
carico di responsabilità che forse non avrebbe voluto neanche lui ma che
ormai non può rifiutare. Un tempio pagano frequentato da persone in
adorazione spasmodica, un’ adorazione poco composta e non raccolta.
Gente semplice ed illusa di poter cambiare il proprio destino grazie a
canzoni come ARRENDERMI MAI. Una vittima da consolare e un eroe da
assumere come modello, sicuramente un personaggio buonista. Perché al
contrario di altri modelli negativi degli anni settanta, non propone mai
messaggi che esortino alla violenza, anzi. I suoi discorsi, come detto,
sono rivolti alla comprensione, alla tolleranza e all’ottimismo. Ogni
epoca ha i suoi eroi: in questo scorcio finale di decennio c’è Renato
Zero. Comunque, sempre meglio un Renato Zero che un Renato Curcio.
Il film di Renato Zero nelle sale cinematografiche italiane si chiama
CIAO NI’ (modo di dire romano). Una trama esile costellata da una
quindicina di canzoni del nostro, riprese da spettacoli veri
(interessante rivedere i costumi di scena che usava all’epoca) o
sceneggiate e girate per il film. Il protagonista deve lottare contro un
nemico misterioso che lo vuole uccidere e contro tutte le convenzioni
della società moderna. Alla fine, spaccando uno specchio che riflette la
sua immagine, Renato Zero scopre che il nemico misterioso era lui stesso
o meglio, il suo alter ego. Questo film ottiene un successo strepitoso
ai botteghini, un successo sul quale nessun operatore del settore
avrebbe giurato, almeno non in queste proporzioni. Il pubblico fa la
fila per andarlo a vedere e in una giornata di maggio, in un solo cinema
a Roma, ha incassato la cifra di 24 milioni di lire. Roba da film tipo
JESUS CHRIST SUPERSTAR o LA FEBBRE DEL SABATO SERA. La domanda negli
ambienti musicali era come sarebbe andato il film di Renato Zero. Se
avesse avuto successo si sarebbero potute proporre operazioni similari.
Ci ha provato Anna Oxa col film MASCHIO, FEMMINA, FIORE, FRUTTO, dove la
cantante fa la doppia parte di uomo e donna, tanto per ritornare
sull’argomento che contribuì a renderla famosa un anno fa quando si
vociferava che fosse un uomo travestito da donna (sospetto avvolorato
dall’abbigliamento maschile in stile punk). Ma i risultati furono subito
miserrimi. Pochi giorni nelle sale, un flop clamoroso che seguiva quello
di Alan Sorrenti col suo film FIGLI DELLE STELLE. Il discorso è che non
si possono più riproporre filmetti canori così come si faceva negli anni
sessanta: prendi una canzone famosa, il cantante che l’ha lanciata e
fanne un film: in provincia sarà successo assicurato. Ora il pubblico
sembrerebbe maturato e non gli basta più il filmetto con il divo canoro.
Vuole lo spettacolo e nel film di Renato Zero l’ha trovato. Non in
quelli della Oxa e di Sorrenti.
Franco Califano
Guai per Franco Califano, che comunque non è nuovo a fatti del genere.
E’ stato arrestato perché ritenuto responsabile di traffico di droga. I
carabinieri gli hanno trovato 30 grammi di cocaina, 77 flaconi di
anfetamina e una pistola calibro 38 a tamburo con 55 cartucce. Quando il
responsabile della Mobile lo ha dichiarato in arresto, Califano ha avuto
un cedimento ed è scoppiato a piangere. Su di lui pende anche un
provvedimento di fermo di polizia giudiziaria perché accusato di
sfruttamento della prostituzione minorile (una giovane l’ha denunciato).
Le indagini della Mobile avevano preso il via molto tempo prima, da
circa 6 mesi. Gli agenti della Mobile avevano arrestato un noto
personaggio responsabile di aver sfregiato il “playboy” Gianfranco
Piacentini rompendogli in faccia una bottiglia mentre si trovavano nella
discoteca Ippopotamus a Roma. Il noto personaggio (noto alla Mobile più
che alla gente comune) era stato già arrestato insieme a Califano nel
1970 (nel famoso affaire Walter Chiari-Lelio Luttazzi) sempre per
traffico di droga. Ma fossero tutti qui i guai: mentre è in carcere, in
casa di Califano fanno visita i ladri, che glie la svaligiano
devastandola senza una particolare ragione, prendendosela con i tendaggi
e con i trofei raccolti nel corso della sua carriera. L’avvocato
dell’autore dice che si tratta di un azione persecutoria di ignoti
nemici.
Tina Turner
Ritorna al pubblico italiano dopo un po’ di tempo che non si vedeva
dalle nostre parti Tina Turner, senza il fardello ad alto tasso etilico
e manesco del marito Ike. Insieme a Pippo Baudo, Heather Parisi, La
Smorfia, Fioretta Mari, Tullio Solenghi ed Enrico Beruschi partecipa
allo spettacolo LUNA PARK, trasmissione televisiva in otto puntate del
sabato sera. Cambio di immagine per la pantera nera della musica soul:
capelli biondi, abiti di scena microscopici, molto scollati (prima
utilizzava minigonne inguinali) per far risaltare ancora di più la
tonicità del suo corpo di ultra quarantenne. Un corpo veramente bello,
che fa a pugni con la carta d’identità. Un corpo che appare integro
anche alla soglia dei sessanta, quando Tina è sulla scena (metà anni
novanta) impegnata in un tour mondiale. Non è la prima volta che la
vediamo dal vivo in Italia, in tv. L’ultima fu durante una puntata di
Teatro Dieci del 1971 condotto da Alberto Lupo. Con la stampa
chiacchiera amabilmente un po’ di tutto: dal successo che Donna Summer
continua a riscuotere nel mondo nonostante il genere disco sia ormai
agli sgoccioli (anche se non sembrerebbe, data la mole di dischi usciti
negli ultimi mesi), al motivo per cui lei stessa non si sia convertita
alla discomusic (il successivo, LOVE EXPLOSION, sempre del ’79, sarà
comunque ricco di ammiccamenti al genere disco) negli anni passati. Alla
domanda di un giornalista, se sia ricca o meno, risponde pressappoco:
sì, sono ricca. Ma forse le regine non lo sono?.
Il suo nuovo disco si chiama ROUGH e come recita il titolo (durezza,
asperità) Donna si presenta da sola con la sua proverbiale carica di
aggressività fisica. Questo disco è in sintonia con le migliori
tradizioni del R’&’B, segna un ritorno alle origini che culmina con la
riesumazione del brano di Ray Charles NIGHT TIME IS THE RIGHT TIME. Per
la cantante era giunto il momento di valere qualcosa anche senza il
marito. Non tanto per il pubblico, perché questo lo aveva capito già, ma
per lei e per la sua stabilità psicologica, per la sua sicurezza
interiore. E anche se non sarà uno dei dischi della cantante che ha
venduto di più, resta un ottimo viatico per iniziare alla grande il
decennio successivo, quello degli ottanta, che la vedrà trionfante sui
palchi di tutto il mondo. Da sola, senza un pessimo marito sempre in
cerca dell’occasione adatta per sminuirla e soggiogarla
psicologicamente.
Curtis Mayfield
Si parlava di personaggi della musica soul (ma anche pop) che cambiano
repertorio per ragioni commerciali. La disco music, essendo diventata
uno dei filoni più redditizi del mondo discografico, continua ad
annoverare nelle sue file nuovi adepti. Oltre i già citati Bee Gees, chi
avrebbe mai pensato che un santone del soul come Curtis Mayfield, uno
che cambiò volto alla soul music negli anni sessanta, si avvicinasse al
mondo delle discoteche? Firma un contratto con la Curtom, che viene
distribuita dalla RSO (Robert Stigwood Organisation), quella dei Bee
Gees. Questo significa garanzia di successo nel mercato disco
praticamente sicura. A chi gli chiede il perché di questo voltafaccia
Mayfield risponde che l’ha fatto (naturalmente) per soldi, e tanti. Ma
anche perché era stufo di sentire nelle canzoni da discoteca frasi
scontate e sempre simili come let’s dance o shake your body e decide
quindi di dare un senso ai testi e in qualche modo sdoganare (verbo che
odio) la discomusic considerata una sorella minore e deficiente (ma
ricca) del soul, del R’n’B e del funky. Per celebrare alla grande il
passaggio di Curtis Mayfield alla discomusic una rivista inglese ha
coniato un nuovo verbo: discofication. Intraducibile perché inesistente
ma il significato vorrebbe essere la dischificazione di un personaggio
solitamente lontano da quel mondo. Comunque non dimentichiamoci che poi
tanto lontano non lo era perché già nel 1972 incise la colonna sonora
molto ‘funkeggiante’ di SUPERFLY, pezzo ballatissimo nelle discoteche di
tutto il mondo.
Isaac Hayes
Un altro santone della black music che comunque è sempre stato
abbastanza vicino alla musica delle sale da ballo è Isaac Hayes. Quasi
contemporaneamente al disco di Barry White (THE MAN) esce anche il suo:
FOR THE SAKE OF LOVE. Hayes, alla stregua di Barry White, ha creato uno
stile inconfondibile. Se White è quello di LOVE’S THEME lui è l’autore
di SHAFT e il “la” al genere disco, l’ha dato anche lui, segnando una
svolta importante nell’evoluzione del soul e della discomusic. Così,
come Barry White, ha la sua orchestra personale che grossissimo successo
ha avuto nel periodo 1972-1977 e che adesso sta un po’ battendo la
fiacca, avendo saturato il mercato del suo pubblico. Quindi, sempre
discomusic è, ma di classe. Così come quella di Mayfield, di White. Per
l’ex arrangiatore di Otis Redding, un LP che mette in mostra una nuova
stringatezza. Quindi poco uso di archi come era di moda fino ad un paio
di anni fa e come ci aveva abituato anche Barry White ma un suono
elegante, secco e nervoso.
Elton John
Elton John sbarca in Russia ed è il delirio a Stalingrado (San
Pietroburgo). I giovani sovietici, in astinenza da sempre per quel che
riguarda la musica pop e rock (il massimo della “trasgressione” permessa
dalle autorità politiche, negli anni passati, erano stati Robertino e
Claudio Villa o altri cantanti italiani) sbalordiscono la polizia che
non aveva mai visto tanto fanatismo esternato in queste proporzioni ma
sbalordisce anche lo stesso Elton John che, quanto a scene di isteria
collettiva, ne sa qualcosa. Egli, nel 1979, vive un momento di stanca a
livello internazionale e il suo peso, nel mondo della musica pop, è un
po’ diminuito a vantaggio di altri personaggi emergenti. Lo sbarco in
Russia, sempre improbabile per un cantante straniero, era stato
pianificato per un rilancio su scala internazionale: la pubblicità
derivante dall’operazione avrebbe sicuramente fatto rialzare le sue
quotazioni sul mercato che “conta”.
Ma il delirio collettivo, neanche si stesse a Salem nel 1600, quello
no,non era previsto. La troppa astinenza, come si è detto, può provocare
effetti collaterali, come questo. I russi non conoscevano Elton John se
non di nome, non avevano i suoi dischi (naturalmente vietati), non
conoscevano le sue canzoni e non capivano una parola di inglese ma un
successo così, come affermerà lo stesso Elton John, non l’aveva mai
avuto. Un successo dovuto più ad un desiderio di normalità che
all’effettiva presenza di un personaggio che comunque sia, nonostante il
momento di calo, era da considerarsi uno dei massimi esponenti della
musica mondiale. L’entusiasmo durante lo spettacolo è stato soffocato
non senza difficoltà dalla polizia, ma quando Elton John ha omaggiato
pubblico e Beatles cantando la celeberrima BACK IN THE USSR, la gente ha
gettato via ogni remora ed ogni timidezza, scrollandosi di dosso anni di
silenzio forzato: e ci sono stati assalti al palco (assalti pacifici),
richieste di autografi - non importa a chi, l’importante era beccare
qualcuno che stesse sul palco – richieste di bis. E, alla fine, la sua
macchina assediata ed inseguita dalla folla per qualche centinaio di
metri. Perfino qualche poliziotto si è lasciato coinvolgere
dall’entusiasmo e si è messo a chiamare il cantante per nome.
John Wayne
Classe 1907, fama da duro. Il cowboy per eccellenza, “furiosamente”
militarista ed interventista, l’icona dei repubblicani americani,
patriota all’estremo. Tutte cose che facevano storcere il naso ad un
certo tipo di critica, ma che lo facevano amare dalla gente comune, dal
sud al nord dell’America. Lui a quei critici, possibilmente avrebbe
sparato, facendo roteare le colt e soffiando sul fumo fuoriuscito. Non
per niente si chiamava John Wayne. Anche se il suo vero nome era Marion
Michael Morrison, dell’Iowa, robusto giocatore di football americano,
figlio di emigrati irlandesi. Quando si aggirava per Hollywood in cerca
di particine, il suo nome era ancora quello. Nel 1930 la prima parre in
THE BIG TRAIL, ovvero IL GRANDE SENTIERO. Il successo fu immediato anche
se per tutti gli anni trenta girò film minori ma di cassetta. Nel 1939
OMBRE ROSSE e la fama internazionale. Durante la guerra, nonostante la
sua patriottica figura non andò al fronte ma Mac Arthur gli disse che
rappresentava il militare americano per eccellenza meglio di chiunque
altro e quindi interpretò tantissimi film, sempre in divisa, da marine
come da ufficiale di cavalleria. Odiava di un odio estremo i commies
(come venivano chiamati in modo dispregiativo in Usa i comunisti),
odiava gli attori e i registi che svilivano la bandiera a stelle e
strisce, che non sentivano l’amor di patria come una priorità e che
erano pronti a svendersela in film che avrebbero fatto fortuna nella
patria dei frogs-eaters (come gli americani tutti di un pezzo chiamano i
francesi, mangiatori di rane). Negli anni cinquanta fu uno dei creatori
di Alleanza Cinematografica, un’associazione impegnata nella salvezza
degli ideali americani e venne alle mani con il regista Edward Dmytryk
perché aveva usato la parola masse nella maniera tipica dei commies.
Naturalmente a rimetterci non fu John Wayne.
In realtà Dmytryk non era affatto un commie ma aveva solamente delle
idee leggermente più a sinistra di quelle del Duca. Antirosso,
antigiallo, antitutto quello che non era caucasico e bianco-rosso-blu.
Ma soprattutto contro i cosiddetti intellettuali da salotto, che a
riprese, aveva contribuito a mandare all’ospedale più di una volta.
Dicevano che si era immedesimato nel suo personaggio cinematografico e
che sognava sempre di sterminare a turno comunisti, indiani, vietcong,
giapponesi, nazisti. In realtà, come confermarono quelli che lo
conoscevano da vicino si considerava soltanto un uomo giusto che non
aveva mai violato la legge di Dio e degli uomini ed era anche abbastanza
modesto da non considerarsi neanche un attore o un divo ma semplicemente
un lavoratore dietro la macchina da presa. Ora è morto e lo piange
l’America intera. Un personaggio così controverso e politicamente
scorretto come non se ne è avuti mai nella storia del cinema. Chiunque
avrebbe cercato o di mediare o addirittura di nascondere certe
idiosincrasie verso determinate categorie. Lui non se n’è mai curato ed
ha proseguito nel suo stile di vita (criticabile o meno) perché era il
“suo” e l’attore lo preferiva fare al cinema, non nella vita di tutti i
giorni. Soleva ripetere: duecento milioni di americani sono con me, gli
altri possono dire quello che vogliono. Si fottano. Il 10 di giugno
perde la sua battaglia contro il cancro inziata nel 1964. Come un vero
eroe da film, man mano che il dolore si acuiva, rifiutò gli anelgesici
perché voleva godersi la sua famiglia - che gli era sempre accanto -
desideroso di essere cosciente fino all’ultimo e di poter vedere la
morte quando sarebbe arrivata: se avesse potuto gli avrebbe anche
sparato un cazzottone nei denti! L’ultimo giorno decide di morire come
un cattolico, perché cattolici erano le sue tre mogli e i suoi sette
figli. Chissà se gli fa piacere cavalcare nelle verdi praterie di Manitù a
fianco dei tanti pellerossa che nei film ha contribuito a mandare
all’altro mondo.. in fondo la morte, come diceva Totò, suo collega, è una
livella.
Christian Calabrese
Fare clic qui per inserire un commento a questo articolo.
SAINT-VINCENT ESTATE (1979)
di David Guarnieri
Immancabile, come ogni anno, arriva l’appuntamento con “Saint–Vincent
Estate”, manifestazione patrocinata dall’Amministrazione Regionale della
Valle d’Aosta e della “SITAV (Società Incremento Turismo Alberghiero
Valdostano)”. La “FLS (Federazione Lavoratori Spettacolo)” indice una
conferenza sul tema “Convenzione Internazionale sul diritto degli
Artisti impegnati nella produzione dei fonogrammi e ruolo del Sindacato
in difesa degli esecutori ed interpreti musicali”. Nel corso del
convegno vengono dibattute le difficoltà della nostra industria
discografica, con una attenzione particolare alle questioni poste dalla
Convenzione Internazionale sulla protezione degli artisti nazionali.
Nonostante le seriose premesse, il Comune di Saint -Vincent e la Rai
intendono proporre al pubblico uno spettacolo godibile e fastoso. L’ex
“Disco per l’estate”, da quattro anni privato della gara musicale, è
anche nel 1979 una “tranquilla” vetrina per proporre i successi
dell’estate.
La struttura che ospita il gala è il Casinò de la Vallée, reso ancor più
scintillante dallo scenografo Gianni Villa. La regia è curata dal più
che affidabile Antonio A. Moretti. I conduttori del varietà sono i Gatti
di Vicolo Miracoli (Jerry Calà, Franco Oppini, Nini Salerno ed Umberto
Smaila), reduci dal grande successo in hit parade del brano “Capito?!”,
sigla di “Domenica in” (il contenitore pomeridiano di Rai 1 condotto da
Corrado). La direzione artistica è curata da Gianni Ravera, il quale
riesce a comporre un cast particolarmente ricco, che comprende, tra gli
altri: Fred Bongusto con “Lunedì” (dall’omonimo album prodotto da Don
Costa e Teddy Randazzo), Brenda Mitchell (“Bad Party”), la grintosa Anna
Oxa con “Il pagliaccio azzurro”, Amedeo Minghi con “Di più”, Umberto
Tozzi, che canta “Non va che volo” (dal fortunatissimo album “Gloria”),
Pupo con “Forse”, Claudio Baglioni con “Un po’ di più” (dall’lp “E tu
come stai?”), Adriano Pappalardo, aggressivo come al solito, con la sua
“Ricominciamo”, il romantico Sandro Giacobbe con “Blu”, Umberto Balsamo,
uno dei trionfatori dell’estate ’79 con il suo tormentone “Balla”,
Raffaella Carrà e la sua “E salutala per me” (forse il suo unico
tentativo di proposta musicale, senza il supporto di una trasmissione
televisiva), gli Idea 2 con “She’s a Witch” (sigla del telefilm “Vita da
strega”), il trionfante Patrick Hernandez con “Born To Be Alive”. Amanda
Lear (“Fashion Pack”) e Patty Pravo con “Autostop” si contendono la
palma della trasgressività. La nota dissacrante viene offerta da Rino
Gaetano e la sua divertente “Ahi, Maria” e – addirittura – dal futuro
premio Oscar Roberto Benigni con il brano “Playboy”. L’artista più
applaudita, in definitiva risulta Gloria Gaynor, interprete di “I Will
Survive”, un enorme successo in tutto il mondo.
Anche in questo 1979, la rassegna di “Saint-Vincent Estate” ottiene un
ottimo indice di ascolto, soddisfacendo in pieno le aspettative della
Rai e del Comune di Saint-Vincent, interessato alla manifestazione, per
promuovere ulteriormente i servizi connessi al turismo: hotel,
ristoranti, casinò e via dicendo. Gli acquirenti sottolineano il
gradimento alle canzoni ascoltate nello spettacolo, premiando
particolarmente i prodotti presentati da Tozzi, Pappalardo, Gaetano,
Oxa, Hernandez, Gaynor, Baglioni, Balsamo e la Lear.
Un grande ciao da
David Guarnieri
Fare clic qui per inserire un commento a questo articolo.